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111 LIBRI PER PENSARE E RIFLETTERE - TUTTI IN ITALIANO E FORMATO PDF - DOWNLOAD IMMEDIATO

Massimo Fini – Il Denaro Sterco del Demonio

Cos’è il denaro? Quando e perché è nato? Il denaro è una logica affascinante ma tremendamente insidiosa che ha finito per soggiogarci e determinare gli stili, i ritmi, le modalità e gli scopi della nostra vita, disegnando prospettive inquietanti. Se dal punto di vista individuale il denaro è un credito, preso globalmente è un debito sempre più colossale che stiamo accumulando col futuro. È una scommessa continua su se stessa, cioè sul vuoto. Fino a quando potrà durare il gioco? Il libro di Massimo Fini è da un lato una storia del denaro, rigorosamente documentata, dall’altro è un attacco radicale alla società contemporanea di cui il denaro, col suo abnorme sviluppo, è insieme metafora e concretissimo strumento.

Marco Della Luna – Neuroschiavi

La società non si autogoverna, ma è gestita – dall’esterno – attraverso strumenti sempre più evoluti. Fin dall’inizio di questo secolo, già colpito da recessione strutturale e da crescente povertà, gli Stati hanno iniziato ad attrezzarsi con strumenti psicologici ed elettronici di controllo e repressione, capaci di gestire un ampio e turbolento malcontento.

Il recente progresso tecnologico aumenta sempre più il divario tra il vertice e la base della piramide sociale, dando al primo un ampio spettro di mezzi per un controllo centralizzato dell’opinione pubblica.  I governi, soprattutto statunitense e britannico, si attrezzano per inibire e reprimere tecnologicamente il dissenso sociale causato dalla recessione. Si va verso il conformismo imposto e la tecnocrazia. In uno scenario dove libertà e consapevolezza sono sempre più minacciate, è indispensabile conoscere gli strumenti che le attaccano.

Neuroschiavi ha questo scopo.

Il libro descrive i meccanismi di condizionamento adoperati nella storia, dal plagio religioso alla propaganda politica, dal marketing e pubblicità fino al controllo elettromagnetico, integrando il piano psicologico con quelli neurofisiologica e sociologico, ponendosi l’esigenza di studiare, comprendere e contrastare l’opera di tali mezzi, a tutela della libertà e del (possibile) benessere proprio e altrui.

Un’opera basata su aggiornatissimi progressi scientifici e su conoscenze dirette. Un indispensabile manuale di sopravvivenza e autodifesa in uno scenario di vita sempre più aggressivo e subdolo.

Frithjof Schuon – Unità Trascendente delle Religioni

L’Autore, che da mezzo secolo è l’interprete indiscusso della Sophia perennis, non ha certo bisogno di una presentazione, dato che la sua autorità nell’ambito della tradizione, della metafisica e della spiritualità è unanimemente riconosciuta.

In questo suo primo libro, apparso nel lontano 1948 e che, tradotto in circa una decina di lingue, ha fatto quasi il giro del mondo, F. Schuon spiega con la sua consueta competenza che «il vocabolo “esoterismo” è così spesso usurpato per mascherare le idee meno spirituali e più dannose possibili, e quel che si conosce delle dottrine esoteriche è così frequentemente plagiato e deformato che non vi è soltanto beneficio, ma addirittura obbligo di fare intravedere, da una parte ciò che è l’esoterismo autentico e ciò che non lo è, e dall’altra quello che costituisce la solidarietà profonda ed eterna di tutte le forme dello spirito».

E venendo al tema principale del libro, che da il titolo allo stesso, precisa che «se parliamo di “unità trascendente”, vogliamo dire con ciò che l’unità delle forme religiose deve essere attuata in modo puramente interiore e spirituale, e senza tradimento di nessuna forma particolare. Gli antagonismi tra queste forme non recano danno alla Verità una e universale più di quanto gli antagonismi tra i colori non nuocciono alla trasmissione della luce una e incolore».

Carlo Terracciano – Rivolta Contro il Mondialismo Moderno

In questo scritto che, anche nel titolo, si richiama all’opera di Julius Evola, al suo testo fondamentale “Rivolta contro il mondo moderno”, Carlo Terracciano vuole offrire una risposta alle sfide della moderna globalizzazione nel solco del pensiero tradizionale che, in quanto tale, non può che essere RIVOLUZIONARIO e totalmente antagonista al Sistema. Questa “Rivolta…” è un Manifesto della lotta al modernismo, al Capitalismo, all’imperialismo americano-sionista, alla decadenza occidentale in ogni sua manifestazione: in una parola al Mondialismo, quale progetto di omologazione dei popoli e dei continenti al pensiero unico totalitario del Nuovo Ordine Mondiale americanocentrico. In quanto tale esso vuole anche offrire delle risposte teoriche e pratiche alle sfide del XXI secolo, del Terzo Millennio dell’era cristiana appena iniziato e già battezzato con fiumi di sangue e guerre d’aggressione imperialiste. GEOPOLITICA, DOTTRINA DELLE TRE LIBERAZIONI, EURASISMO, sono solo alcuni degli argomenti trattati in questo agile manuale per i quadri politici e i militanti europei rivoluzionari. Un testo indispensabile per uomini che non si sono mai arresi e per giovani che cominciano oggi a combattere per il proprio futuro, per la libertà nazionale e l’unità d’Eurasia.

Bernard Marillier – Lo Svastica (Storia, Mito e Simbolo)

Lo swastika è uno dei simboli più antichi. Presente ovunque, è stato utilizzato da numerosi popoli, dairAaia Estrema all’America passando per la Cina, la Mongolia, l’India e l’Europa. Simbolo per eccellenza di buon augurio è anche simbolo di benedizione e saluto.

Immagine del perpetuo movimento rotatorio intorno al Sole, è simbolo della vita, del ruolo vivificatore del Principio in rapporto all’ordine cosmico.

Simbolo del fuoco, della manifestazione ciclica e della rigenerazione universale, lo swastika è anche un’immagine del tempo e dell’energia divina perennemente presente e attiva nel cosmo. A torto conosciuto in Occidente principalmente per il suo utilizzo durante il Terzo Reich, per questo motivo viene erroneamente considerato simbolo del Male Assoluto.

Massimo Fini – La Guerra Democratica

Dopo il collasso del contraltare sovietico le democrazie, Stati Uniti in testa, hanno inanellato, in vent’anni, otto guerre di aggressione. La “guerra democratica” non si dichiara, ma si fa, con cattiva coscienza, chiamandola con altri nomi. Col grimaldello dei “diritti umani” si è scardinato il diritto internazionale sul presupposto che l’Occidente, in quanto cultura superiore (moderna declinazione del razzismo), portatore di valori universali, i suoi, ha il dovere morale di intervenire ovunque ritenga siano violati. Il nemico, allora, non è più, schmittianamente, uno “justus hostis”, ma solo e sempre un criminale. Essenzialmente tecnologica, sistemica, digitale, condotta con macchine e robot, la “guerra democratica” evita accuratamente il combattimento, che della guerra è l’essenza, perdendo così, oltre a ogni epica, ogni dignità, ogni legittimità, ogni etica e persino ogni estetica.

Massimo Fini, 2012

Zbigniew Brzezinski – La Grande Scacchiera

“La grande scacchiera” è il titolo di un recensissimo libro di Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter, una delle teste pensanti della politica estera degli Stati Uniti. Esso espone, con esemplare chiarezza e senza infingimenti “umanitari”, il quadro strategico globale entro cui collocare e comprendere le ragioni essenziali dell’aggressione della Nato alla Repubblica Federale Jugoslava, fortissimamente voluta dagli Stati Uniti.

“Il crollo dell’Unione Sovietica – scrive l’autore – ha fatto sì che gli Stati Uniti diventassero la prima e unica potenza veramente globale, con una egemonia mondiale senza precedenti e oggi incontrastata. Ma continuerà ad esserlo anche in futuro? Per gli Stati Uniti, il premio geopolitico più importante è rappresentato dall’Eurasia, il continente più grande del globo”, che “occupa, geopoliticamente parlando, una posizione assiale, dove vive circa il 75% della popolazione mondiale ed è concentrata gran parte della ricchezza del mondo, sia industriale che nel sottosuolo. Questo continente incide per circa il 60% sul PIL mondiale e per 3/4 sulle risorse energetiche conosciute … L’Eurasia – sintetizza Brzezinski – è quindi la scacchiera su cui si continua a giocare la partita per la supremazia globale”.

“Ma se la Russia – prosegue l’autore – dovesse respingere l’Occidente, diventare una singola entità aggressiva e stringere un’alleanza con il principale attore orientale (la Cina) “, e con l’India, “allora il primato americano in Eurasia si ridurrebbe sensibilmente”. E così pure se i partner euro-occidentali, soprattutto Francia e Germania, “dovessero spodestare gli Stati Uniti dal loro osservatorio nella periferia occidentale” (così viene definita l’area dell’Unione Europea), “la partecipazione americana alla partita nello scacchiere eurasiatico si concluderebbe automaticamente”.

Quindi, conclude Brzezinski, “la capacità degli Stati Uniti di esercitare un’effettiva supremazia mondiale dipenderà dal modo con cui sapranno affrontare i complessi equilibri di forza nell’Eurasia: e la priorità deve essere quella di tenere sotto controllo l’ascesa di altre potenze regionali (predominanti e antagoniste) in modo che non minaccino la supremazia mondiale degli Stati Uniti”.

Titus Burckhardt – Alchimia – Significato e Visione del Mondo

Titus Burckhardt (Firenze, 1908 – Losanna, 1984), la cui autorità e competenza nel campo della mistica, della cosmologia e della metafisica sono oggi unanimemente riconosciute (è stato, fra l’altro, traduttore assai apprezzato di grandi mistici musulmani), pubblicò quest’opera nel 1960. Essa è stata più volte edita in Italia e viene ora presentata in una nuova traduzione, insieme ai numerosi disegni originali e a 12 tavole fuori testo.

SOMMARIO

  • Capitolo I – L’origine dell’alchimia occidentale
  • Capitolo II – Natura e linguaggio dell’alchimia
  • Capitolo III – La saggezza ermetica
  • Capitolo IV – Spirito e materia
  • Capitolo V – Pianeti e metalli
  • Capitolo VI – La conversione degli elementi
  • Capitolo VII – La “materia prima”
  • Capitolo VIII – La natura universale
  • Capitolo IX – “Natura sa superare Natura”
  • Capitolo X – Zolfo, Argento vivo e Sale
  • Capitolo XI – Le “nozze chimiche”
  • Capitolo XII – L’Alchimia della preghiera
  • Capitolo XIII – L’atanor
  • Capitolo XIV – La storia di Nicolas Flamel
  • Capitolo XV – Le fasi dell’opera
  • Capitolo XVI – La Tavola di Smeraldo
  • Conclusione

Ossendowski F. – Bestie Uomini Dei

Una delle opere più interessanti di René Guenon è sicuramente il “Re del Mondo” , pubblicata per la prima volta nel 1924. In questo saggio, il noto studioso si sofferma su due scritti precedenti: “Mission de l’Inde” di Saint-Yves d’Alveydre  e “Bestie, uomini e dei” di Ferdinand Ossendowski, inoltre, cita, con scarso entusiasmo, “Les fils de Dieu”, di Luis Jacolliot .
Sia d’Alveydre che Ossendowski, pur interessandosi di aree geografiche diverse, suppongono l’esistenza di Agartha, un regno sotterraneo, abitato da iniziati e governato da un monarca con straordinari poteri: il Re del Mondo.
Celebre, a tal proposito, è un passo di “Bestie, uomini e dei”: “La terra e il cielo cessavano di respirare. Il vento non soffiava più, il sole si era fermato. In un momento come quello, il lupo che si avvicina furtivo alla pecora si arresta dove si trova; il branco di antilopi spaventate si ferma di botto […]; al pastore che sgozza un montone cade il coltello di mano […] Tutti gli esseri viventi impauriti sono tratti involontariamente alla preghiera e attendono il fato. Così è accaduto un momento fa. Così accade sempre quando il Re del Mondo nel suo palazzo sotterra prega e scruta i destini di tutti i popoli e di tutte le razze”.
Ossendowski riferisce di aver raccolto numerose prove sull’esistenza di questo straordinario impero ipogeo.
Ad esempio, lungo le rive dell’Amyl, alcuni anziani gli narrarono di un’antica tribù che sfuggì alle armate di Gengis Kan, rifugiandosi in immense caverne. Più tardi, presso il lago Nogan Kul, un Sojoto gli mostrò un antro fumante, assicurandogli che era l’ingresso d’Agharta. Desideroso di saperne di più, l’avventuroso polacco condusse ulteriori ricerche ed apprese che, migliaia di anni orsono, un santo uomo scomparve con la propria gente in una misteriosa regione ctonia.
In seguito, pochi coraggiosi l’avrebbero visitata ma nessuno sarebbe stato in grado di ubicarla. Perciò alcuni la pongono in India, altri in Afghanistan, altri ancora nell’Asia centrale.

Luois Charpentier – I misteri della Cattedrale di Chartres

All’interno della cattedrale di Chartres, nella navata laterale sinistra del transetto meridionale, c’è una pietra rettangolare, posta trasversalmente rispetto alle altre lastre, il cui candore si staglia nettamente sulla tinta grigia della pavimentazione. La pietra ha un tenone in metallo lucido, leggermente dorato.
Ogni anno, il 21 giugno, quando il sole splende – come generalmente avviene in quel periodo – proprio a mezzogiorno un raggio colpisce quella pietra; un raggio che penetra attraverso uno spazio ricavato nella cosiddetta vetrata di San Apollinaire, la prima del muro ovest di quel transetto. La particolarità è segnalata da tutte le guide ed è considerata una bizzarria, uno scherzo del pavimentatore, del vetraio o del costruttore…
Trovandomi casualmente a Chartres un 21 giugno, volli “vedere il fatto” come una curiosità del posto.
Pensavo che il mezzogiorno locale dovesse cadere fra l’una meno un quarto e l’una meno cinque… Effettivamente allora il punto luminoso si fissò sulla lastra.
Un raggio di sole che, in una certa penombra, crea una macchia sul pavimento: cosa c’è di tanto sorprendente? Sono cose che si vedono ogni giorno…
Tuttavia non riuscivo a liberarmi da una strana sensazione. Un tempo qualcuno aveva lasciato un minuscolo spazio vuoto in una vetrata… Qualcun altro aveva scelto una lastra speciale, diversa da quelle che costituiscono il pavimento di Chartres, più bianca, affinché venisse notata. Si era adoperato per ricavare nella lastricatura un posto adatto ove inserirla; l’aveva forata per fissarvi il tenone in metallo di colore leggermente dorato; tenone che non indicava né il centro della lastra né uno dei suoi assi.
Era qualcosa di più di uno scherzo del pavimentatore. Un pavimentatore non fa un buco in una vetrata per far illuminare una pietra per qualche giorno all’anno…

Leon Degrelle – Militia

Raccolte in questo volume (giunto alla quinta edizione italiana), le parole di passione del Comandante della 28° SS Freiwillige Panzergrenadier Division “Vallonie”, Léon Degrelle, che qui rievoca i momenti più significativi della sua esistenza, sono un esercizio letterario di assoluta grazia. Parole potenti e “piene di dolcezza”, descrizioni e meditazioni “che ardono”. Militia fa pensare, a tratti, a un Proust meno snervato, capace dell’incanto dell’evocazione estetica ma pure dell’eroismo della pratica di vita.

John Perkins – Confessioni di un sicario dell’economia

John Perkins rivela: sono stato arruolato dal governo degli Stati Uniti allo scopo di risucchiare le ricchezze di paesi poveri. Che un banchiere intitoli le sue memorie “Confessioni di un sicario dell’economia” è già clamoroso. Ma ciò che il banchiere John Perkins rivela nel suo libro, “Confessions of an economic hit man” (1) è spaventoso: racconta di essere stato arruolato dal governo Usa allo scopo di risucchiare a favore degli Stati Uniti le ricchezze di paesi poveri, e ciò “attraverso manipolazioni economiche, tradimenti, frodi, attentati e guerre”.
Le rivelazioni di Perkins gettano una luce del tutto nuova anche sulle motivazioni dell’invasione dell’Irak. John Perkins dice di essere stato reclutato quando era ancora studente, negli anni ’60, dalla National Security Agency (NSA), l’entità più segreta degli Stati Uniti, e poi inserito dalla stessa NSA in una ditta finanziaria privata. Lo scopo: “Per non coinvolgere il governo nel caso venissimo colti sul fatto”. Quale fatto? Abbastanza semplice.
Come capo economista della ditta privata Chas.T.Main di Boston con 2 mila impiegati, Perkins decideva la concessione di prestiti ad altri paesi. Prestiti che dovevano essere “molto più grossi di quel che quei paesi potessero mai ripianare: per esempio un miliardo di dollari a stati come l’Indonesia e l’Ecuador”. La condizione connessa con il prestito era che in massima parte venisse usato per contratti con grandi imprese americane di costruzioni e infrastrutture, come la Halliburton e la Bechtel (strutture petrolifere).
Queste ditte costruivano dunque reti elettriche, porti e strade nel paese indebitato; il denaro prestato tornava dunque in Usa, e finiva nelle tasche delle classi privilegiate locali, che partecipavano all’impresa. Al paese, e ai suoi poveri, restava lo schiacciante servizio del debito, il ripagamento delle quote di capitale più gli interessi. L’Ecuador, dice Perkins, è oggi costretto a destinare oltre metà del suo prodotto lordo – cioè di tutta la ricchezza che produce – per il servizio dei debiti contratti con gli Usa. Ma questo è solo il primo passo. Gli Usa, indebitando quei paesi, vogliono in realtà “renderli loro schiavi”, dice Perkins. All’Ecuador, non più in grado di ripagare, Washington chiede di cedere parti della foresta amazzonica ecuadoriana per farla sfruttare da imprese americane. E’ questa la logica imperiale.

Jean Raspail – Il Campo dei Santi

Scritto nel 1973 dal romanziere francese Jean Raspail, “Il Campo dei Santi” è un libro unico nel suo genere, assolutamente “scandaloso” rispetto ai falsi dogmi dell’ideologia liberal-marxista e sicuramente irrepetibile dal punto di vista di una tecnica letteraria che, per potenza narrativa e per l’incedere visionario, trova pochi eguali nel suo genere.Il libro immagina l’odissea di un’immensa folla di paria e reietti provenienti dal Gange che, per mezzo di malfermi e malridotti battelli, si riversa in modo pacifico ma invasivo sulle coste meridionali della Francia il lunedì di Pasqua del 1997.Guidata da un personaggio carismatico, soprannominato non a caso il “coprofago”, “l’armata dell’ultima chance”-come viene subito ribattezzata-può godere dell’incondizionato ed entusiastico sostegno di una coorte numerosa formata da politici, intellettuali radical-chic, autorità ecclesiastiche imbevute di terzomondismo, attivamente impegnati nell’approntare il nuovo mondo multirazziale che si verrà a creare attraverso la fusione della civiltà europea con quella dei nuovi venuti.Il tema centrale del romanzo è rappresentato dall’attesa di questo incontro-scontro di culture così incompatibili da cui nascerà una società multietnica e multirazziale.In tale frangente la civiltà occidentale si trova in una situazione di disarmo morale dal momento che “il suo dio carnale e materiale” è morto e che “l’antica Fede(quella autenticamente cattolica)rimanda solo il pallido riflesso di una società vuota e senz’anima, un simulacro privo di senso”.In ciò Raspail sembra anticipare la devastante crisi dottrinale e dogmatica che ha investito vasti e importanti settori della Chiesa post-conciliare laddove la teologia si è degradata a sociologia e i sacerdoti officianti il Culto si sono trasformati in assistenti sociali, o peggio, in agitatori politici. “Il Campo dei Santi” si dispiega, nella presentazione dei personaggi, seguendo una linea narrativa che si fonda su di una struttura policentrica. Da questo punto di vista non esiste un protagonista principale nella misura in cui il filo conduttore del romanzo viene ad essere incarnato dal crollo della società europea a vantaggio di un nuovo ordine fondato sui valori della multirazzialità e del meticciato. Questo approdo è entusiasticamente agognato dai vari intellettuali e politici che vedono in ciò l’espiazione dell’”uomo bianco” nei confronti del terzo mondo in ordine agli orrendi crimini di cui si sarebbe macchiata la cultura occidentale(colonialismo, razzismo, sfruttamento degli indigeni…). Esemplare, in questo senso, il ruolo svolto nel libro dal domenicano padre Agnellu: pur assolvendo a una funzione “minore”, infatti, egli esemplifica magistralmente il prototipo del sacerdote “progressista” impegnato nel “sociale”, con un evidente riferimento alla vicenda- reale- che ha visto il più importante teorico brasiliano della “teologia della liberazione” approdare recentemente allo pseudomisticismo new age. Dall’altra parte “l’armata dell’ultima chance” non “manca di una sua altera dignità” come ci fa notare Fabrizio Sandrelli nella postfazione. “Alla carità malriposta degli apostoli dell’accoglienza” essa reagisce con disprezzo e  indifferenza rifiutando ogni soccorso da parte dell’ “uomo bianco”.La turba del Gange, a differenza di un’Europa ormai esausta nel suo materialismo più demenziale, sprigiona una vitalità etnica(frutto di una riproduzione biologica a livelli inimmaginabili per l’Europa)scevra da sensi di colpa o da sentimenti etnomasochisti in relazione alla sua ferrea volontà di radicamento e di colonizzazione in terra europea. Di fronte a questo atteggiamento le autorità e l’opinione pubblica occidentali si mostrano imbelli, remissive, titubanti quando non apertamente sostenitrici rispetto all’invasione in atto. Esemplare, in quest’ottica, il personaggio di Jean Orelle che riveste il ruolo dell’intellettuale organico fautore della solidarietà e dell’accoglienza a livello mondiale quanto accanito e implacabile accusatore della società “occidentale”, “sfruttatrice”, “razzista” e “imperialista”.Questa sua posizione ideologica non gli impedirà tuttavia, allorquando gli eventi precipiteranno, di tentare una fuga disperata quanto vana verso la Svizzera dove sostanziosi conti bancari-frutto meritato di un’esistenza spesa, a parole, a favore dei poveri, degli ultimi e dei derelitti-saranno in grado di offrirgli il giusto conforto.Il romanzo termina con la caduta della civiltà occidentale che l’autore paragona a quella di Costantinopoli, esempio quest’ultimo di una ricorrente e insistita simbologia metaforica che innerva la struttura della narrazione esaltandone l’inquietante afflato profetico e visionario.Lo stesso titolo, “Il Campo dei Santi” , richiama il brano dell’Apocalisse di Giovanni(cap.20, 7-9)laddove “la città diletta” simboleggia l’Europa mentre Mog e Magog (le forze del Male) gli invasori che l’assediano. A differenza da quanto profetizzato da Giovanni, tuttavia, “non vi sarà alcun fuoco soprannaturale che scenderà a distruggere gli assedianti”.La sorte del Campo dei Santi è ormai segnata.Ignorato dalla “grande” editoria italiana, questo romanzo giunge al lettore di casa nostra grazie al coraggio- culturale e civile -della raffinata casa editrice “Edizioni di Ar”impegnata, da anni, a promuovere testi e idee non conformiste e sicuramente “altre” rispetto all’ideologia di una modernità che vuole essere onnipotente e onnicomprensiva. Accolto, alla sua uscita, da un grande successo in Europa e negli Stati Uniti, il libro di Raspail diventò ben presto un “caso” letterario registrando accuse, demonizzazioni e omertosi silenzi. Ottenne, tuttavia, positive recensioni da parte di autorevoli riviste come il “Time” e il “Wall Street Journal” che lo definì come “la visione più atroce della razza umana sin dai tempi del quarto viaggio di Lemuel Gulliver”mentre “Il Sole 24ore” attribuì al romanzo di Raspail “il potere di scuotere le nostre certezze sin dalle fondamenta”.Più volte paragonato ai grandi classici della distopìa contemporanea quali “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley e “1984” di George Orwell, “Il Campo dei Santi” mantiene tuttavia una sua fisionomia socio-storica e antropologica di irripetibile originalità e di non facile classificazione a conferma di una natura poliforme e polisemica che lo pone ai vertici della migliore produzione letteraria europea del novecento.

Frithjof Schuon – Caste e Razze

La trattazione di Schuon si apre con la definizione dell’istituto delle caste, che trova la sua giustificazione nella differenziazione dei tipi umani con la conseguente diversità di attitudini e di qualificazioni. Nell’Induismo il sistema delle caste ha conosciuto la sua applicazione più rigida basata sul principio di ereditarietà della casta, mentre nell’Ebraismo e nell’Islam le caste sono assenti, poiché in queste culture ha prevalso la considerazione ugualitaria secondo la quale tutti gli uomini sono stati creati a immagine e somiglianza di Dio. Fra queste due concezioni c’è l’Europa cristiana medievale nella quale la società era divisa in caste ma in modo abbastanza flessibile: la casta sacerdotale era vocazionale e la casta guerriera poteva accogliere elementi delle caste dei lavoratori attraverso processi di nobilitazione, e in questo modo poteva verificarsi l’eventualità che un contadino diventasse papa e consacrasse l’imperatore. Ma gli appartenenti alle caste, anche alle più umili, avevano ciascuno una propria dignità e delle qualità specifiche che ne determinavano la funzione sociale. Le antiche società gerarchizzate creavano anche spazi per individui senza attitudini particolari, dalla psicologia caotica e poco definita e quindi portati alla trasgressione: per proteggere l’ordine sociale dalla contaminazione di questi elementi si formavano i gruppi dei “fuori casta” e degli “intoccabili” nel mondo induista, oppure degli ebrei e degli zingari nel mondo occidentale. La mentalità moderna, fondata su concezioni ugualitarie derivate da grossolane e improbabili ideologie materialiste, e particolarmente avversa al principio di ereditarietà, ritiene inaccettabile dividere l’umanità in caste. Ma le caste antiche, come si è visto, avevano una funzione sociale che equilibrava le attitudini umane, mentre il materialismo moderno ha trasformato gli elementi mediocri in classe dirigente e di fatto ha ribaltato il senso delle caste, assegnando a incapaci e parassiti prerogative e privilegi del tutto ingiustificati, e determinando le disfunzioni sociali che caratterizzano il mondo contemporaneo. Nell’antichità e nel medioevo gli uomini avevano una chiara coscienza del senso del limite ed erano consapevoli dei rischi che l’umanità correva se lasciava spazio alle forze demoniache che si collocavano al di fuori dell’orizzonte del sacro. Nel mondo moderno, invece, la meccanizzazione e la tecnologizzazione dell’economia hanno creato la massa dei “proletari”, che non corrisponde a una casta naturale ma a una collettività quantitativa.

Fulcanelli – Le Dimore Filosofali (vol.2)

Personaggio fra i più enigmatici e affascinanti del XX secolo, Fulcanelli – chiunque si nasconda dietro a questo pseudonimo, soprannome o gioco di parole (Ndr forse Jean Julien Champagne 1877-1932 o anche René Adolphe Schwaller de Lubicz) – è stato l’ultimo grande alchimista di cui abbiamo avuto notizia.
L’enigma FulcanelliCi ha lasciato solamente due opere pubblicate, redatte dal fedele discepolo Eugène Canseliet nato nel 1899 (Il mistero delle cattedrali nel 1926 e Le dimore filosofali nel 1931),e lo stralcio – una semplice sinossi – di un terzo libro, mai dato alle stampe, il Finis Gloriae Mundi, un’opera conclusiva che rivelerebbe alcune inquietanti scoperte che legano indissolubilmente il mondo degli antichi alchimisti a quello dei fisici nucleari, responsabili di aver permesso all’umanità il controllo sull’energia atomica.
Aiutato nel suo anonimato da Canseliet, che non ne svelerà mai l’identità ma tenderà invece a confondere le acque, e dall’illustratore Julien Champagne, che, deceduto nel 1932, porterà con sé il segreto del Maestro, Fulcanelli realizzò la Grande Opera alchimistica già nel 1922, per eclissarsi e scomparire negli anni successivi, fino a far perdere le proprie tracce… o quasi.

Fulcanelli – Le Dimore Filosofali (vol.1)

Personaggio fra i più enigmatici e affascinanti del XX secolo, Fulcanelli – chiunque si nasconda dietro a questo pseudonimo, soprannome o gioco di parole (Ndr forse Jean Julien Champagne 1877-1932 o anche René Adolphe Schwaller de Lubicz) – è stato l’ultimo grande alchimista di cui abbiamo avuto notizia.
L’enigma FulcanelliCi ha lasciato solamente due opere pubblicate, redatte dal fedele discepolo Eugène Canseliet nato nel 1899 (Il mistero delle cattedrali nel 1926 e Le dimore filosofali nel 1931),e lo stralcio – una semplice sinossi – di un terzo libro, mai dato alle stampe, il Finis Gloriae Mundi, un’opera conclusiva che rivelerebbe alcune inquietanti scoperte che legano indissolubilmente il mondo degli antichi alchimisti a quello dei fisici nucleari, responsabili di aver permesso all’umanità il controllo sull’energia atomica.
Aiutato nel suo anonimato da Canseliet, che non ne svelerà mai l’identità ma tenderà invece a confondere le acque, e dall’illustratore Julien Champagne, che, deceduto nel 1932, porterà con sé il segreto del Maestro, Fulcanelli realizzò la Grande Opera alchimistica già nel 1922, per eclissarsi e scomparire negli anni successivi, fino a far perdere le proprie tracce… o quasi.

Fulcanelli – Il Mistero delle Cattedrali

Personaggio fra i più enigmatici e affascinanti del XX secolo, Fulcanelli – chiunque si nasconda dietro a questo pseudonimo, soprannome o gioco di parole (Ndr forse Jean Julien Champagne 1877-1932 o anche René Adolphe Schwaller de Lubicz) – è stato l’ultimo grande alchimista di cui abbiamo avuto notizia.
L’enigma FulcanelliCi ha lasciato solamente due opere pubblicate, redatte dal fedele discepolo Eugène Canseliet nato nel 1899 (Il mistero delle cattedrali nel 1926 e Le dimore filosofali nel 1931),e lo stralcio – una semplice sinossi – di un terzo libro, mai dato alle stampe, il Finis Gloriae Mundi, un’opera conclusiva che rivelerebbe alcune inquietanti scoperte che legano indissolubilmente il mondo degli antichi alchimisti a quello dei fisici nucleari, responsabili di aver permesso all’umanità il controllo sull’energia atomica.
Aiutato nel suo anonimato da Canseliet, che non ne svelerà mai l’identità ma tenderà invece a confondere le acque, e dall’illustratore Julien Champagne, che, deceduto nel 1932, porterà con sé il segreto del Maestro, Fulcanelli realizzò la Grande Opera alchimistica già nel 1922, per eclissarsi e scomparire negli anni successivi, fino a far perdere le proprie tracce… o quasi.

Burckhardt, Titus – La Nascita Della Cattedrale Chartres

Più che uno studio di storia dell’arte è l’evocazione viva e fedele del clima spirituale che permise l’esplosione di quelle città dello spirito che sono le cattedrali, ultimi gioielli di una lunga tradizione che l’autore analizza nei suoi aspetti principali.
Prima cattedrale di stile gotico classico, Chartres ne è l’esempio gotico, il prototipo.
In essa si incarnano le concezioni più elevate dell’uomo del Medioevo, concezioni sempre fondate sull’Idea e per la cui comprensione si esige di penetrare nel cuore del suo universo simbolico, in cui è custodita la verità eterna e universale. L’opera si chiude con una poetica descrizione medievale del tempio del Graal, cattedrale ideale verso la quale tendono, talvolta sino a quasi raggiungerla, tutte le cattedrali gotiche.

Titus Burckhardt è nato a Firenze nel 1908 ed è morto a Losanna del 1984. Figlio dello scultore di Basilea Carl Burckhardt, cominciò a frequentare le scuole e gli ateliers d’arte. Attirato ben presto dall’arte orientale si mise a cercarne le fonti studiando le civiltà tradizionali. Due lunghi soggiorni in Marocco negli anni trenta gli consentirono di acquisire una eccellente conoscenza dell’arabo e delle maggiori discipline islamiche. Incaricato nel 1972 dall’Unesco e dal governo del Marocco di esaminare i problemi sollevati dalla preservazione della città antica «medina», ha impostato la preparazione di un programma di salvaguardia che ha permesso l’iscrizione della città magrebina sulla lista del patrimonio mondiale.

Arthur De Gobineau – Sull’ Ineguaglianza delle Razze

Nella scansione dei generi letterari andrebbe introdotta la categoria degli ‘inimmaginabili’ per accogliere la fioritura di quelle opere che vanno oltre l’inattualità. Così lontane dai condizionamenti e dalle compiacenze verso il presente che turbano e confondono, ma perciò liberano e rischiarano. Opere che destano ‘meraviglia’ (cfr. Aristotele) e rigenerano le ali perdute, arcaiche, del pensiero, e dilatano i confini del pensabile. Opere che hanno il chiarore e il valore dell’aurora. A tale categoria appartiene il capolavoro di de Gobineau.

Ananda K. Coomaraswamy – Sapienza Orientale e Cultura Occidentale

Facendo sua questa lezione, Ananda K. Coomaraswamy dedicò la vita perché le tradizioni indiane – dall’artigianato alla memoria orale delle antiche mitologie – non si inaridissero nell’imitazione e nella ripetizione. Bersaglio della sua analisi furono le zone oscure della società occidentale, a cominciare dalla “febbre” del fare e del costruire, in una smania di progresso tecnologico che perdeva ogni prospettiva e ogni finalità. In questo libro, egli passa in rassegna i mille volti del mondo occidentale: la colonizzazione che ha imposto ovunque i propri modelli di vita, compresi i germi del disordine morale ed ecologico; l’illusione dell’alfabetismo coatto; la scomposizione delle strutture sociali; il distacco dalla religione; il divario fra vita e arte, mentre a suo giudizio l’espressione artistica presuppone la coincidenza fra «bellezza e utilità». L’uomo contemporaneo potrà ritrovare l’equilibrio perduto solo seguendo il filo della saggezza, la contemplazione dell’Est, nell’aspirazione a “un regno di Dio in terra”.

Ananda K. Coomaraswamy – Induismo e Buddismo

Ananda K. Coomaraswamy - Induismo e BuddismoIn Induismo e buddhismo Ananda K. Coomaraswamy illumina, con la profondità e l’immensa erudiziene che caratterizzano tutta la sua vasta produzione, gli insegnamenti originari e la sostanza della concezione filosofica di queste due grandi religioni, di cui traccia la storia riferendosi ai loro miti, alle loro tradizioni rituali, alle rispettive dottrine e scritture sacre.

In tal modo egli intende mostrare come induismo e buddhismo esprimano verità universali «che nessun popolo e nessuna epoca possono rivendicare come esclusivamente proprie». E sebbene Induismo e buddhismo sia suddiviso in due parti, incentrate sull’analisi delle rispettive religioni, Coomaraswamy afferma con forza l’identità dei loro concetti essenziali.

«Le fonti buddhiste e brahmaniche sono state qui distinte: » scrive infatti Coomaraswamy nell’avvertenza «forse sarebbe stato preferibile trattare l’argomento in modo complessivo, senza fare distinzione tra buddhismo e brahmanesimo. In effetti sarebbe ormai giunto il momento di scrivere una summa della philosophia perennis basata con imparzialità su tutte le fonti ortodosse. Sono stati citati inoltre testi platonici e cristiani al fine di rendere più chiaro, tramite il ricorso a contesti più familiari, il contenuto di alcune dottrine indù, e per sottolineare il fatto che la philosophia perennis (Sanàtana Dharma, Akàliko Dhammo) è sempre e ovunque identica a se stessa. Queste citazioni non sono intese come un contributo alla storia della letteratura; non mirano a suggerire prestiti di dottrine o simboli fatti in una direzione o nell’altra, né un’origine indipendente per idee analoghe, bensì una eredità comune risalente a un’epoca di molto antecedente ai nostri testi e che sant’Agostino definisce “la saggezza che non fu creata, ma che ora esiste, che è sempre esistita e sempre esisterà”».

Alexandre Saint-Yves d’Alveydre – Il Regno di Agarttha

È uscita nel 2009, curata da Gianfranco de Turris per le Edizioni Arkeios, col titolo Il regno di Agarttha, la traduzione di Matteo De Chiara dell’opera Mission de l’Inde en Europe. Mission de l’Europe en Asie di Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, uscita nel 1886 per i tipi di Calmann Lévy ma subito dopo ritirata e distrutta (salvo un paio di copie) dall’autore. Fu riedita, con qualche variazione, nel 1910 dalla “Société des Amis de Saint-Yves” fondata da Papus, e poi, in modo più conforme all’originale, nel 1981 dalle Éditions Bélisane di Cazilhac. L’edizione italiana riporta da quest’ultima l’introduzione di Jean Saunier, premettendole però l’introduzione che Joscelyn Godwin ha steso per la sua traduzione The Kingdom of Agarttha (Inner Traditions, 2008, trad. it. di Pasquale Faccia). Contiene inoltre l’Avvertenza degli “Amici di Saint-Yves” e qualche documento in appendice.

Bisogna dire che le introduzioni di Godwin e Saunier risultano essere la parte più interessante dell’opera, in quanto forniscono dati interessanti su Saint-Yves e i suoi informatori orientali.

Il testo di Saint-Yves vero e proprio, invece, è sì interessante per ragioni storiche, ma denuncia pesanti limiti.

1) In primo luogo l’autore è scarsissimamente attendibile, con la sua fissazione per la sinarchia e la sua incredibile presunzione mentre, per quanto riguarda Agarttha, nella maggior parte dei casi si rifà a Louis Jacolliot, generalmente ritenuto altrettanto inattendibile, o alle proprie discutibili visioni in astrale (peraltro lo prese troppo sul serio anche Guénon, che così si ritrovò ne Il Re del mondo diversi lasciti di Jacolliot). Va tuttavia concesso che Saint-Yves ritirò la sua opera dal commercio, il che potrebbe significare non già chissà che di arcano (come hanno ipotizzato troppo fedeli ammiratori) ma che si fosse accorto dei suoi troppi limiti.

2) In secondo luogo la cura editoriale è per taluni aspetti inesistente, sicché viene travasata dall’edizione francese nell’edizione italiana tutta una serie di errori marchiani.

Ad esempio, conformemente al testo francese (cfr. su Gallical’edizione del 1910), a pagina 80 dell’edizione italiana, due righe di testo ebraico sono riprodotte al contrario (e la seconda infarcita d’errori). Possibile che il curatore o qualcun altro in casa editrice non siano perlomeno in grado, non dico di correggere il testo, ma perlomeno di accorgersi che è rovesciato e raddrizzarlo? Già era strambo che Saint-Yves citasse, invece dell’originale greco del Vangelo di san Giovanni, una sua traduzione ebraica, per giunta trascritta male, ma se poi la si mette anche a testa in giù…

Altra serie di errori (risalenti a Saint-Yves o all’editore francese o a tutt’e due?): nel capitolo primo, tra p. 69 e p. 90 dell’edizione italiana, sono riportate una quantità di parole in sanscrito che però per buona parte sono scritte sbagliate. Anche qui, non era forse il caso di chiedere una consulenza a qualcuno e scrivere qualche nota esplicativa?

Per far capire, due esempi tra tanti: la prima parola riportata, che dovrebbe essere la trascrizione di “Agarttha”, è in realtà scritta “Âgashthatha”, con la “a” iniziale lunga, senza “r”, la prima “t” cerebrale e aspirata e seguita da una “a”: quattro errori in una sola parola. E a p. 90, invece di “dham”, c’è scritto “davam”, con iniziale erronea e una sillaba “va” in mezzo che non c’entra niente.

Ma gli errori sono tanti, senza contare le parole di cui si dà un significato sbagliato, come a p. 73 il termine “Pândava” (“n” e “d” cerebrali), che indica i “discendenti di Pându” ma viene trascritto “Pandavâm” (“n” e “d” dentali) e interpretato per “sapienti”, nonché l’inqualificabile pretesa di Saint-Yves di spacciare per sanscriti composti come “Agnael”, “Yamael”, “Varanael” e “Uvael”, che sono degli ibridi composti di pseudosanscrito e della parola ebraica “El”, che indica Dio e in quella posizione caratterizza in ebraico i nomi degli angeli.

Anche a p. 167, in una inconsistente elucubrazione, Saint-Yves pretende di vedere il nome di Agarttha nella traduzione ebraica delle Lettere di San Paolo. Peccato che la parola che lui legge “Agarttha” sia invece “Iggèreth”,normalissima parola ebraica che vuol dire «lettera».

3) In terzo luogo è vero che nella Nota del traduttore a p. 46 si dice che «i nomi propri sono stati conservati in maniera fedele all’originale», ma era proprio il caso di farlo senza mettere neppure una nota? E senza indicare magari le derivazioni da Jacolliot, come quel terribile Christna al posto di Krishna che Jacolliot tirò fuori dal suo cappello ma non corrisponde a nulla in sanscrito?

Insomma il volume è curioso da leggere sia per le introduzioni sia perché è storicamente utile a capire come si sia introdotto in Europa il mito del paese misterioso di Agarttha (in un’epoca in cui, nonostante Csoma de Körös, poco o nulla si sapeva della tibetana Shambhala), nonché la mentalità che caratterizzava gli occultisti  successivi a Éliphas Lévi (in genere assai peggiori, meno colti e più presuntuosi di lui). Serve anche agli studiosi di Guénon per indagare sulle fonti de Il Re del mondo, anche se a questo fine sarebbe indispensabile la rilettura – se ci si riesce, perché è assai prolissa – dell’opera di Louis Jacolliot.

Stefano Sissa – Pensare la Politica Controcorrente

Il tema principale del libro di Stefano Sissa è la figura del controverso filosofo francese Alain de Benoist, esponente di spicco della Nouvelle Droite, nel suo percorso dalla “Destra politica” alla “Destra antropologica”. Con “Destra politica” Stefano Sissa si riferisce al percorso del pensiero antimoderno e antirivoluzionario di de Maistre, De Bonald, e poi di Barrés e di Maurras (poi “destra”, semplicemente) mentre con “Destra antropologica” definisce un modo di comprendere il mondo non come contrapposizione a qualche forma di “sinistra”, ma una propria Weltanschauung che si coagula intorno alla figura e alla filosofia di Julius Evola. Il percorso compiuto dall’autore è dunque molto ampio e consiste nel mettere a confronto i temi principali di questo pensiero di destra (natura, identità, gerarchia, autorità, ordine) con i saggi e gli interventi critici di de Benoist dagli anni Settanta sino al 2007, ricostruendo la rete di relazioni con il pensiero della destra tradizionale e non (in verità troppo ramificata per poter essere efficacemente riassunta nello spazio di una recensione).

Una delle caratteristiche del pensiero di de Benoist è quello di superare i limiti della tradizionale contrapposizione tra destra e sinistra, una contrapposizione ormai oltrepassata dalla crisi delle ideologie, in modo da creare una nuova positiva antitesi, non contrapposizione, tra le due. In effetti, la prospettiva tracciata da de Benoist i paletti posti da Norberto Bobbio nel suo noto Destra e Sinistra.

Le sue idee sono sempre state radicali, ma non unidirezionali. Sotto questo profilo la sua evoluzione è molto interessante: partito in età giovanile da stereotipi e da ambienti politicamente molto connotati a destra, anche con risvolti inquietanti, ha poi compiuto un lungo cammino che lo ha portato ad approdare alla cosiddetta Nouvelle Droite, una destra appunto antropologica, ma non politicamente collocata e anzi sovente in polemica con i partiti tradizionalmente di destra del suo paese, in particolare con il Fronte Nazionale.

Il primo concetto esaminato è quello di natura: un aspetto presente in molti autori tradizionalisti (il ritorno alla natura è uno degli aspetti del rifiuto della modernità). Per de Benoist, dopo una giovanile adesione a modelli di razzismo biologico (aveva simpatizzato con l’ Organisatione de l’Armée Secrète) la natura è un dato storico (secondo il detto di Nietzsche); in lui la tradizionale concezione dell’altro come nemico, secondo la diffusa visione di Carl Schmitt si concretizza via via in una pluralità di figure senza mai legarsi troppo all’effettiva appartenenza biologica, sino a trasformarsi in un nazionalismo etico in cui compaiono elementi della socialdarwiniana struggle for life, per distanziarsi poi anche da quella. Insomma, la sua è una parabola che lo porta dall’occidentalismo al terzomondismo degli anni Ottanta sino alle attuali forme di vicinanza all’antiglobalismo e ai miti della decrescita: né di destra, né di sinistra, appunto, ma sia di destra sia di sinistra.

Altrettanto tradizionale mi sembra l’approccio al tema della rappresentazione dell’identità, e del suo concetto contrario, la differenza. I due si determinano sulla base di una costruzione culturale, la quale a sua volta determina l’identità, sulla quale non si costruisce un ordine politico – de Benoist è sempre attento a distinguersi dagli aspetti politici della destra – ma morale. Questo non è bastato a salvarlo dalle accuse di razzismo, non biologico appunto, ma culturale: in effetti, per quanto come ho già detto non più legato a particolari movimenti politici e anzi “disgustato” dalle posizioni di Le Pen e compagni, si è sempre dichiarato contrario all’immigrazione non regolamentata, proprio in nome del riconoscimento della diversità. Il tema della gerarchia non è distante da quanto detto: in una società le gerarchie sociali sono definite dal ruolo e dallo status, ossia dalle funzioni sociali e dalle posizioni connesse a ciascuna di esse. Come ricorda il sociologo Alain Touraine dalla rivoluzione francese in poi le gerarchie sociali intese come stratificazione sociale si affiancano all’egualitarismo dei diritti civili e politici (giusnaturalismo). A questo tipo di egualitarismo si è opposto il ritorno all’ethos aristocratico (anche nella forma del solipsismo eroico di Nietzsche). Lo stesso de Benoist si colloca in una sorta di no-man’s land aristocratica. I giovani di destra degli anni ‘70, come lui era (e anche ‘80) manifestavano spesso contro l’egualitarismo in tutte le sue forme, spesso rifugiandosi in una sorta di ethos cavalleresco dove è permesso il combattimento fra eguali che rende ancora possibile un rapporto gerarchico anche quando la guerra moderna spersonalizza l’avversario.

Stefano delle Chiaie – L’Aquila e il Condor

Se non provenissero da Pablo Neruda, che politicamente stava decisamente sul fronte opposto, Stefano Delle Chiaie potrebbe prendere a prestito il titolo del libro più famoso del poeta: Confesso che ho vissuto. Militante fascista fin dalla giovanissima età, con una spiccata predilezione per l’azione più che per la discussione teorica, Delle Chiaie ha segnato, nel bene e nel male, trent’anni di battaglia politica, nel nostro Paese e non solo.
Accusato dei peggiori crimini, piazza Fontana compresa, e ricercato dalle polizie di mezzo mondo, il suo nome è stato associato ad alcuni dei fatti più cruenti e misteriosi del passato recente. Oggi, per la prima volta, Delle Chiaie ha scelto di fornire la sua versione, che spesso contraddice i resoconti di altri testimoni.
Il suo racconto getta nuova luce su alcuni degli episodi più discussi degli Anni di piombo: come la famigerata beffa dei “manifesti cinesi”, il golpe Borghese, la strage del 12 dicembre 1969, i fatti di Reggio Calabria, il presunto piano dei servizi per sequestrare Aldo Moro, quattordici anni prima che lo facessero le BR. E ancora, fuori dall’Italia durante gli anni di una lunga latitanza, sulla sua attività di avventuriero politico – con ruoli di primo piano – fra Sudamerica, Spagna, Angola e Portogallo, nel segno dell’utopia di una “internazionale nera”.

Daniel Estulin – Il Club Bilderberg

Daniel Estulin - Il Club Bilderberg“Scopri chi governa veramente l’Italia… nella seconda edizione aggiornata del Club Bilberberg di Daniel Estulin”

Finalmente la seconda edizione aggiornata del libro che racconta la storia dell’organizzazione segreta più potente al mondo.
Potrai scoprire gli importanti protagonisti della vita politica,finanziaria e industriale italiana ed europea che ne fanno parte,

da Mario Monti a Mario Draghi, dalla famiglia Agnelli a Romano Prodi e tanti altri…

Siamo davvero sicuri che vogliamo affidare il nostro futuro politico ed economico a loro?

Il Club Bilderberg presenta una delle più potenti e segrete organizzazioni del mondo. Dal 1954, una volta all’anno, questo gruppo ristretto di persone si ritrova per decidere segretamente il futuro politico ed economico dell’umanità.

Nessun giornalista ha mai avuto accesso alle riunioni che fino a poco tempo fa si sono svolte presso l’Hotel Bilderberg, in una piccola cittadina olandese. Nessuna notizia è mai filtrata da quelle stanze, anche se – come dimostrano le pagine di questo libro – è durante questi incontri che vengono prese le decisioni più rilevanti per il futuro di tutti noi.

Risultato di un’indagine serrata e pericolosa durata oltre 15 anni, l’impressionante inchiesta di Daniel Estulin svela per la prima volta quello che non era mai stato detto prima, rendendo noti i giochi di potere che si svolgono a nostra insaputa.

Super protetta dalle forze di polizia,

la classe dirigente globale detta legge su politica, economia e questioni militari.

La dettagliata opera di Estulin dimostra come il Club Bilderberg sia stato coinvolto nei maggiori misteri della storia recente, dal Piano Marshall allo scandalo Watergate e come in questa élite emergano le figure chiave dello scacchiere internazionale, presidenti USA, direttori di agenzie come CIA o FBI, vertici delle maggiori testate giornalistiche. Estulin colpisce questa organizzazione proprio dove fa più male: la priva della segretezza, della discrezione e dell’ombra di cui si è sempre servita e di cui necessita per attuare i suoi piani.

Il Club Bilderberg, tradotto in 50 lingue e diffuso in oltre 70 Paesi, è diventato in poco tempo un bestseller internazionale, di cui è anche prevista la versione cinematografica.

De Vries De Heekelingen – Israele – Il Passato L’Avvenire

 H. de Vries de Heekelingen, Israele Il suo passato Il suo avvenire,De Vries de Heekelingen (1880-1941), titolare della cattedra di Paleografia e Diplomatica all’Università di Nimega (Olanda) e presidente della Commissione Cattolica di Cooperazione Intellettuale, fondatore di un Centro studi filofascista, pubblicò questo saggio nel 1937 a Parigi, appoggiando l’idea sionista della creazione di uno Stato ebraico in Palestina e del trasferimento della popolazione ebraica mondiale (o della maggior parte di essa) sul suo territorio e argomentando che ciò avrebbe consentito agli altri Stati di considerare stranieri gli ebrei della Diaspora.

Saverio Pipitone – Shock Shopping

La Grande distribuzione organizzata (Gdo) conta in Italia 22 mila strutture (tra ipermercati, supermercati, discount, grandi magazzini ecc.) per un fatturato annuo di 100 miliardi di euro.
La Lombardia è la regione  che detiene il primato italiano con 167 shopping center (dati al 2007 tratti da uno studio elaborato da Larry Smith Italia per il Consiglio nazionale dei centri commerciali). Seguono l’Emilia Romagna con 83 strutture e il Piemonte con 78. Nel 2006 sono stati aperti nel territorio italiano 42 nuovi ipermercati, 220 supermercati, 400 discount: vere e proprie “cattedrali del consumo”.

Il testo Shock Shopping (Arianna Editrice) sta facendo salire sul banco degli imputati tutti i grandi gruppi (dalla Coop all’Ikea, dall’Auchan ai Carrefour, Despar ecc…) svela come le catene dei supermercati manipolano la nostra vita.
Il modello è quello del ‘tutto sotto lo stesso tetto’. Una miriade di merci esposte negli scaffali, dagli alimentari, al vestiario, dall’elettronica ai prodotti sportivi, fino alla possibilità di acquistare farmaci e automobili.
Una distesa di marchi colorati che brillano sapientemente sotto le luci al neon.
Dopo l’acquisto di beni e “prodotti anonimi”, i “distretti commerciali” ci offrono anche cibo a volontà “senza storia e tradizione gastronomica”.

Il centro commerciale si evolve nel tempo, nascono dei veri e propri shopping village, cittadelle che attirano il consumatore proponendo musei, cinema, arte di strada, concerti, piscine e piste da sci. Un coinvolgimento che comprende spazio emotivo e culturale. Il cittadino del “centro storico” diviene in questo fenomeno mercantilista il “consumatore del centro commerciale”.
Dalla bottega allo shopping village, c’è un passaggio, una evoluzione che ha portato l’odierna distribuzione ad avere come unico scopo quello di offrire merci al prezzo più basso possibile, innescando una competizione spietata che segue la logica del “fine giustifica i mezzi”, con gravi conseguenze dal punto di vista sociale ed ambientale. Lo stesso prefisso ‘super’ di origine latina, indica un eccesso e il termine greco ‘iper’ qualcosa che va oltre, un’ultra abbondanza per dimensione e quantità.

La Gdo ha allungato le mani anche sul Commercio equo e solidale, nel 2005 la rivista Altraeconomia pubblica un fascicolo in cui fa il punto della situazione.
L’indagine rivela un calo dei consumi nelle botteghe a fronte di un’apparente e inspiegabile popolarità del Commercio equo con oltre 2 milioni di italiani in più rispetto al 2002 che dichiarano di conoscerlo. La risposta sul come mai i consumi solidali diminuiscono sta tutta nell’entrata in gioco della grande distribuzione… Dall’”imperialismo” di Ikea dove il consumatore “non sceglie, ma uniforma semplicemente i propri desideri alle proposte del catalogo”, al come la mafia considera le “cattedrali del consumo” dei formidabili luoghi di riciclaggio di liquidità, accumulata illecitamente. Dalla Coop che entrando nella moderna distribuzione ne divine un articolato sistema cooperativistico, assumendone nel tempo un ruolo preminente nella grande distribuzione italiana, al tema delicato dei farmaci venduti sugli scaffali grazie al decreto Bersani, divenuto legge n. 248 il 4 agosto 2006.

Per sapersi difendere dalle strategie di mercato e per un consumo critico e responsabile occorre esplorare attentamente fra reparti e scaffali della moderna distribuzione. Pipitone ci indica nelle diverse esperienze di decrescita, semplicità e sobrietà legate alla Piccola distribuzione organizzata (Pdo), una possibile alternativa.

F. William Engdahl – Agri Business

Esiste un disegno preciso dietro alle pressioni economiche o militari con le quali un ristretto gruppo di potenti agisce nei confronti dei paesi poveri, obbligandoli a distruggere il proprio millenario sistema di produzione alimentare e a sostituirlo con uno basato sulle grandi fattorie industrializzate e sulla diffusione degli OGM (organismi geneticamente modificati).

Questo disegno si chiama agri-business, il business dell’industria alimentare, e ha come obiettivo il controllo del mondo attraverso il controllo della risorsa primaria per eccellenza: il cibo.

F. William Engdahl è tra i più acuti osservatori del sistema globale, con un interesse particolare per la geopolitica.
In Agri-Business ricostruisce la più pericolosa delle alleanze, quella che governa l’industria alimentare.

Da una parte le multinazionali (Monsanto, Dupont, Syngenta, Dow Chemical, Cargill), dall’altra i poteri forti (Bilderberg Group, Triateral Commission e Council on Foreign Affairs, insieme al governo americano, alla Banca Mondiale, al Fondo Monetario Internazionale e al World Trade Organization).
Nel mezzo i risultati devastanti dell’agri-business: distruzione dei sistemi agricoli e di allevamento tradizionali, diffusione degli OGM, propagazione di virus o altre gravi malattie per la salute umana, dipendenza dell’agricoltura dei paesi poveri dalle multinazionali, crisi finanziarie, piani di controllo demografico.

Un’inchiesta rigorosa, dettagliata e aggiornatissima. Un’analisi spietata della direzione in cui stiamo più o meno inconsapevolmente andando.
Un grido d’allarme per cambiare subito rotta.

Tony Cartalucci – Obiettivo Siria

Un libro per colpire i bombardamenti, svelare la Grande Bugia in tempo, per fermare l’ennesima guerra “umanitaria”. La situazione della Siria è drammatica. Il paese si dibatte in una cruenta guerra civile, oggetto di spietati attacchi da parte di nemici interni ed esterni. La cosiddetta “rivolta siriana” fa in realtà parte di una cinica strategia statunitense che si serve di provocatori, mercenari, fanatici fondamentalisti e ONG corrotte.

Essi sono decisi a colpire uno stato arabo indipendente, dove la ricchezza generata dal petrolio viene impiegata per finanziare lo stato sociale, proprio come avveniva in Libia prima che questa fosse annientata con analoghe modalità. I paesi vicini partecipano al massacro, come sciacalli e iene che strisciano ai piedi del leone americano.

“Obiettivo Siria” è un ammonimento sul modo di operare dell’onnipotente “Impero del Dollaro”. La trama americana, finanziata dai “petrodollari” delle monarchie del Golfo, attiva la tattica delle “counter-gang”: terroristi – mercenari e irregolari, la “legione straniera” della CIA – che fanno saltare in aria edifici e massacrano gli innocenti, per poi addossare le responsabilità della carneficina al governo preso di mira.

ONG come NED – National Endowment for Democracy – incoraggiano gli “attivisti”, i cui leader sono ambiziosi sociopatici, intenti ad aggiudicarsi avidamente una parte delle spoglie dello Stato abbattuto. I mezzi d’informazione credono alla Grande Bugia e la celebrano propagandisticamente, creando una realtà falsificata attraverso cui non è possibile farsi una opinione critica, libera e indipendente.

“Obiettivo Siria” mostra come queste guerre siano architettate attraverso la strumentalizzazione degli istinti più nobili dell’animo umano, tramite l’inganno di coloro che altrimenti tenderebbero a contrastare l’intervento armato, manipolandoli al servizio dell’assassinio di massa e della dittatura globale del potere economico.

Katerine Albrecht – SpyChips

Cosa si nasconde dietro la tessera sanitaria elettronica che ha da poco fatto capolino nel portafoglio di tutti gli italiani? Oltre al nobile intento di salvaguardare la salute nazionale attraverso un capillare monitoraggio, non potrebbe celarsi l’ennesima incursione del sistema nella privacy dei cittadini?
E, scavando più a fondo,
quanto è fitta la rete che controlla le nostre vite?

Secondo l’inquietante scenario descritto dalle due autrici, il Grande Fratello è ovunque: carte di credito, tessere di fedeltà, telepass, confezioni dei prodotti e simili, altro non sono che minuscole spie tecnologiche che hanno il compito di tracciare e registrare i nostri spostamenti, i nostri acquisti, le nostre tendenze sociali, alimentari e culturali. Quest’occhio indiscreto agisce per conto dell’insaziabile società di mercato, che per sopravvivere ha bisogno di sempre più dettagliate informazioni sulle nostre abitudini di consumatori. Il risultato è che siamo continuamente osservati attraverso particolari microchip chiamati RFID (Radio Frequency IDentification), una tecnologia semplice e di basso costo, della quale però non sono stati ancora sufficientemente indagati i pericoli per la salute umana.

Come salvarsi dal perverso intreccio tra marketing e tecnologia?
Un’informazione completa, aggiornata e oggettiva come quella offerta dalle due
autrici di questo saggio rappresenta uno strumento potente a tua disposizione.

Non lasciartelo sfuggire.

Il volume è arricchito da un’esauriente appendice che inquadra il problema nel contesto della società italiana ed europea e delle relative legislazioni in materia.

Gruppo di UR – UR (1927) I.vol. Ed Tilopa

SONO DISPONIBILI  I TRE VOLUMI ORIGINALI (COPIA ANASTATICA) DI UR 1927 – UR 1928 – KRUR 1929 DELLA EDIZIONE TILOPA DA MOLTI ANNI INTROVABILI IN FORMATO CARTACEO – QUESTA E’ LA SOLA EDIZIONE INTEGRALE DI UR E KRUR ESISTENTE OGGI ( DA NON CONFONDERSI CON QUELLA RIDOTTA E PURGATA DA EVOLA ED EDITA DALLE EDIZIONI MEDITERRANEE COL NOME DI “INTRODUZIONE ALLA MAGIA”) FATTA RISTAMPARE ANNI FA DALLO SCOMPARSO MASSIMO SCALIGERO.  LA COPIA DIGITALE IN PDF E’ RIGOROSAMENTE CONFORME AL TESTO ORIGINALE IN QUANTO TUTTE LE PAGINE SONO STATE FOTOGRAFATE AL FINE DI MANTENERE TUTTI I SIMBOLI, DISEGNI E CARATTERI PARTICOLARI. PER VEDERE UN DIMOSTRATIVO CLICCA QUI. ORDINA ADESSO PER NON PERDERE QUESTA OCCASIONE UNICA!

Il Gruppo di Ur è stato un sodalizio magico attivo in Italia alla fine degli anni venti. Direttore del gruppo fu probabilmente Julius Evola alternato da Arturo Reghini fino a quando egli ne fece parte.

Il gruppo si dichiarava indipendente da qualsiasi scuola o movimento esoterico del tempo (occultismo, massoneria, teosofia, spiritismo, ecc.) in quanto la Tradizione esiste di per sé e non è legata ad alcuna scuola. Di fatto però le principali componenti esoteriche rappresentate nel gruppo furono quella antroposofica, quella kremmerziana e quella massonico-pitagorica, oltre ad alcuni cattolici.

Secondo Evola gli obiettivi del gruppo furono essenzialmente due:

suscitare una superiore forza metafisica che potesse aiutare i singoli membri a operare magicamente;
utilizzare questa forza superiore per poter esercitare un’influenza magica sulle forze politiche del tempo.

All’interno del gruppo vi furono dei tentativi di rivitalizzare la componente esoterica-iniziatica del paganesimo tradizionale romano, da parte di Arturo Reghini, di alcuni antroposofi (come Giovanni Cesarò), di Evola stesso, e del personaggio noto con lo pseudonimo di Ekatlos. La relazione dello stesso Ekatlos, pubblicata nel 1929 sulla rivista Krur (articolo La scena e le quinte), su un tentativo da parte di alcuni componenti del gruppo di esercitare una pressione sul fascismo per imprimerne una svolta in senso pagano, rientra nel secondo degli obiettivi del gruppo così come li ha delineati Evola.

Vennero costituite diramazioni del gruppo in altre città (come si evince dagli articoli Glosse varie: costituzione di una catena magica, in Ur 1927 e Istruzioni di catena, in Ur 1928), denominate “catene”, delle quali se ne conosce l’esistenza solo per la città di Genova (dall’articolo Esperienze di catena, in Krur 1929). Sono ignoti i componenti della catena di Genova ma si sa che era costituita da cinque persone e che il suo direttore era un ex kremmerziano.

Dopo la seconda guerra mondiale un sodalizio in Italia avrebbe ripreso il messaggio del Gruppo di Ur: il Gruppo dei Dioscuri. Julius Evola fu il denominatore comune dei due Gruppi, in quanto assistette al percorso della nuova esperienza esoterica, che fu voluta da alcuni giovani a lui molto vicini, che frequentarono casa sua negli anni cinquanta e sessanta e che a lui si ispirarono. È certo che Evola fosse costantemente informato dell’iniziativa, e che ebbe visione dei quattro fascicoli di ispirazione tradizionale (I Fascicoli dei Dioscuri, pubblicati all’interno del Movimento Politico Ordine Nuovo) prima che essi fossero diffusi tra il 1969 ed il 1973. Il Gruppo dei Dioscuri operò a Roma, Napoli, Messina e Milano, e diversamente dall’esperienza del Gruppo di Ur, che si ispirò a varie Tradizioni ed esperienze, ebbe al centro del proprio intento operativo la Tradizione romana prisca. La notizia relativa ad un suo scioglimento, diffusa in particolare attraverso gli scritti di Renato Del Ponte, appare falsa e priva di qualsiasi fondamento, in quanto il Gruppo dei Dioscuri risulta per certo essere stato ininterrottamente attivo fin dal 1969, ed è tuttora costituito dai discepoli dei fondatori, così come è noto a Sandro Consolato, Direttore de “La Cittadella”, rivista del Movimento Tradizionale Romano, che ne riferisce la notizia nei suoi scritti.

Espressione del gruppo fu una rivista nella quale gli autori degli articoli si firmavano con uno pseudonimo, come consuetudine in tutte le scuole iniziatiche, perché ritenevano che non contasse la persona ma l’insegnamento, che a sua volta trascende il singolo individuo. Inoltre l’anonimato evitava che il lettore si facesse influenzare dalla identità degli autori e dalla loro appartenenza a questa o quella corrente esoterica del tempo. Direttore della rivista fu Julius Evola da solo nel 1927, insieme a Arturo Reghini e Giulio Parise nel 1928, di nuovo da solo nel 1929.

La materia trattata dalla rivista è divisa in dottrina, pratica (esposizione di metodi, indirizzi di tecnica e di disciplina), esperienze (relazioni di esperienze interiori effettivamente vissute), testi (pubblicazione di testi, di frammenti di testi o traduzioni di testi, rari o poco noti, di Oriente e d’Occidente, opportunamente chiariti, annotati o sintetizzati da chi ne abbia competenza e tutti volti ad un suscitamento, ad una organizzazione, ad un risveglio) e glosse (considerazione di problemi imposti da particolari fenomeni, per cui si sia condotti al senso di una realtà e di una possibilità trascendente gli angusti quadri in cui si è chiuso l’uomo e la sua scienza).

Nella rivista vennero pubblicati alcuni testi di interesse magico-ermetico-alchemico di varia provenienza; vi sono testi antichi (il rituale mithriaco del Gran Papiro Magico di Parigi, estratti dal de Mysteriis di Giamblico, i Versi d’oro di Pitagora, uno scongiuro magico pagano, Massime di saggezza pagana di Plotino), rinascimentali (De Pharmaco Catholico, un codice plumbeo alchemico italiano, Clavis Philosophiae Chemisticae di Gerard Dorn, La dignità dell’uomo di Pico della Mirandola), moderni (brani tratti da Il Golem e Il volto verde di Gustav Meyrink, il saggio Prospettive tratto da Musica delle fonti di Otokar Brezina) e orientali (un brano del primo capitolo del Kularnava Tantra, alcuni passi del Majjhima Nikaya, brani dallo Shri chakra sambhara, tre canti di Milarepa).

La rivista uscì con il nome di Ur negli anni 1927 (10 fascicoli, di cui due doppi) e 1928 (8 fascicoli, di cui quattro doppi), mentre nel 1929 a seguito dell’uscita dal gruppo di Reghini e Parise, la direzione fu assunta dal solo Evola che cambiò il nome della rivista in Krur (8 fascicoli, di cui due doppi). Nel dicembre 1929 uscì l’ultimo numero di Krur, sul quale Evola annunciava lo scioglimento del gruppo e il proseguimento dell’attività in una nuova rivista dal titolo La Torre, della quale uscirono 10 numeri (dal febbraio al giugno 1930) ma che fu costretta a chiudere per l’ostilità del regime e per alcuni attacchi squadristi. Alla rivista La Torre collaborarono anche alcuni ex appartenenti al Gruppo di Ur: Guido De Giorgio (con lo pseudonimo di Zero), Girolamo Comi, Domenico Rudatis, Emilio Servadio.

I fascicoli di Ur e Krur furono poi ripubblicati rilegati nel 1955-1956 in tre volumi dall’editore Bocca di Roma sotto il titolo di Introduzione alla Magia e una seconda volta nel 1971 dalle Edizioni Mediterranee, con lo stesso titolo. Nel 1987, anche le Edizioni I Dioscuri, ripubblicarono i tre volumi di Bocca. Tutte le le edizioni risentono della revisione operata da Julius Evola già a partire dagli anni Quaranta e ripetuta più volte nel corso degli anni. L’editore Tilopa di Roma ha invece pubblicato negli anni 1980-1981 la ristampa anastatica dei fascicoli originali, senza quindi le successive revisioni di Evola.

I seguenti personaggi fecero parte del Gruppo di Ur e collaborarono alle riviste Ur e Krur (tra parentesi gli pseudonimi):

Leone Caetani (probabilmente Ekatlos), kremmerziano e neopagano.
Giovanni Antonio Colonna di Cesarò (Arvo), antroposofo.
Giovanni Colazza (Leo), antroposofo.
Girolamo Comi (Gic), poeta prima antroposofo, poi cattolico.
Guido De Giorgio (Havismat), cattolico vicino al pensiero di René Guénon.
Aniceto Del Massa (Sagittario), pitagorico e forse massone.
Julius Evola (Agarda, Arvo in alcuni casi, Breno?, Ea, Iagla, Krur?).
Nicola Moscardelli (Sirio, Sirius), filosofo cattolico.
Arturo Onofri (Oso), poeta antroposofo.
Giulio Parise (Luce), pitagorico e massone.
Ercole Quadrelli (Abraxa, Tikaipos), kremmerziano.
Arturo Reghini (Henìocos Arìstos, Pietro Negri), pitagorico e massone.
Corallo Reginelli (Taurulus), prima antroposofo, poi ermetista.
Domenico Rudatis (Rud), alpinista.
Emilio Servadio, psicanalista (Apro?, Es).

Altri personaggi non ancora identificati usarono gli pseudonimi di Alba (probabilmente antroposofo), Arom, Nilius, Primo Sole, Zam.

Secondo Del Ponte, pur non essendoci attestazioni documentarie ma solo testimonianze orali, potrebbero aver fatto parte del Gruppo di Ur (senza però scrivere sulla rivista) anche l’ingegnere aretino Moretto Mori e Amerigo Bianchini, entrambi amici di Reghini (dopo l’espulsione di Guido Bolaffi, Bianchini divenne il maestro venerabile della loggia Hermes di Firenze, facente parte del Rito Filosofico Italiano)

Julius Evola – La Torre

IN DUE VOLUMI. PRIMO IN GRUPPO B – SECONDO IN GRUPPO C

Nel 1930, insieme ad altri amici, tra cui Emilio Servadio, padre della psicanalisi italiana, Evola dà vita a La Torre: “Fu un nuovo tentativo di sortita nel dominio politico culturale. Abbandonando le tesi estremiste e poco meditate di Imperialismo pagano, riferendomi invece al concetto di Tradizione”, scrive Evola, “volli vedere fino a che punto con esso si potesse agire sull’ambiente italiano, fuor dal campo ristretto di studi specializzati”. Nell’editoriale del primo numero si propugna una rivolta radicale contro la civiltà moderna con queste parole: “La nostra parola d’ordine, su tutti i piani, è il diritto sovrano di ciò che fu privilegio ascetico, eroico e aristocratico rispetto a tutto ciò che è pratico, condizionato, temporale… è la ferma protesta contro l’onnipervadenza insolente della tirannide economica e sociale, e contro il naufragio di ogni punto di vista superiore in quello più meschinamente umano”.
Ma Evola non aveva una buona fama presso varie autorità del regime, Imperialismo pagano non viene gradito e meno ancora piace ora l’intransigenza della Torre, la sua indisponibilità assoluta a piegarsi ai conformismi e ai tatticismi della politica. Sempre nel primo numero, in un articoletto intitolato Carta d’identità, si legge: “La nostra rivista è sorta per difendere dei principi che per noi sarebbero assolutamente gli stessi, sia che ci trovassimo in un regime fascista, sia che ci trovassimo in un regime comunista, anarchico o democratico. In sé questi principi sono superiori al piano politico; ma applicati al piano politico, essi possono solo dar luogo ad un ordine di differenziazioni qualitative, quindi di gerarchia, quindi anche di autorità e di Imperium nel senso più ampio”. E veniva aggiunto a mo’ di chiusa: “Nella misura in cui il fascismo segua e difenda tali principi, in questa stessa misura noi possiamo considerarci fascisti. E questo è tutto”.
Ciò che fece saltare i nervi al peggiore fascismo fu una rubrica interna della Torre: L’arco e la clava. Dopo alcuni attacchi, “… si scatenarono le reazioni più violente e brutali, tanto più che ad esser presi particolarmente di mira… erano degli autentici gangsters, uomini privi di ogni qualificazione ai quali per il semplice fatto di essere stati degli squadristi o di ostentare un ottuso fanatismo era stato accordato di fungere da arroganti rappresentanti del pensiero e della ‘cultori’ fascista, col risultato di offrire uno spettacolo pietoso”.
Per un certo periodo, a seguito di queste polemiche, Evola deve girare per Roma con una personale guardia del corpo. Viene prima diffidato dal continuare a pubblicare la rivista poi, siccome della diffida non tiene alcun conto, la polizia politica proibisce a tutte le tipografie di stampare la Torre. Finisce così l’avventura della Torre che uscì per dieci numeri fino al 15 giugno del 1930.
In un clima di conformismo e di adulazione al Duce La Torre era stata una meteora accesa in un mondo culturale abbastanza grigio, anche perché, nelle pagine della rivista era contenuto il nucleo originario dei libri che Evola pubblicò subito dopo presso Laterza e Bocca, libri che indagavano il mondo dei simboli primordiali e dell’esoterismo: La Tradizione ermetica del 1931, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo del 1932, Il mistero del Graal del 1937.

Arthur Koestler – La Tredicesima Tribù

Uno dei miti che sono stati perpetrati nel mondo è quello che recita: solo gli Ebrei sono semiti. Questo non è affatto vero. Ma nonostante ciò la ADL (Lega anti-diffamazione) si è arricchita grazie a donazioni, convincendo i media e la gente a credere a questa falsità.
Se uno indaga circa l’origine della parola, scopre che essa ha a che fare con un gruppo linguistico e niente di più.

Le lingue semitiche sono, secondo i più esperti linguisti, l’Amarico (parlato in Etiopia e Eritrea, terre una volta conosciute con il nome di Abissinia), l’Arabo (parlato in tutti i paesi arabi e in molti paesi musulmani, in quanto lingua del Corano), l’Aramaico (parlato principalmente dai Caldei dell’Iraq e da alcuni Cristiani Cattolici e Maroniti nel mondo, almeno nelle loro funzioni religiose) e il Siriaco (parlato in alcune regioni della Siria e del Medio Oriente). Incidentalmente, secondo la maggior parte dei linguisti, Abramo, il padre degli Ebrei e degli Arabi, parlava Aramaico, lingua di quei luoghi in quei tempi (e non l’ebraico).

Gli attuali Ebrei (geneticamente Ebrei) nacquero nel Medio Oriente e sono conosciuti come Ebrei Sefarditi, che parlavano una lingua semitica, l’Ebraico, fin dalla loro comparsa, ma parlavano anche Aramaico, Arabo, e Amarico a seconda della loro localizzazione, a Gerusalemme o in altre città del Medio oriente.

Così, definire antisemita una persona che è critica di Israele, dei Sionisti e del Sionismo, è un semplice non senso. Tale persona è semplicemente critica di Israele e dei sionisti. Allo stesso modo, se una persona parla contro gli Arabi, può essere definita anti-Araba ma non è antisemita. In entrambi i casi, la persona può essere anti-sionista o razzista o anti-Ebrea o anti-Araba, ma tale persona non può essere chiamata mai ANTI-SEMITA.

L’abuso del termine ha raggiunto recentemente nuove vette, quando alcuni Sionisti presenti nei media americani hanno cominciato a dire che Robert Novak, lui stesso ebreo, era anti-semita.

Prima di tutto, la maggior parte degli Ebrei Askenaziti, nati e cresciuti in America, come Paul Wolfowitz, Richard Perle e Feith, non sono neppure ebrei dal punto di vista genetico in quanto discendenti da tribù slave conosciute come Kazari che si convertirono al Giudaismo, la cui lingua nativa era lo Slavo e la cui prima lingua in America fu l’Inglese, come è appunto il caso di Robert Novak. Non dico che tutti gli Askenaziti non sono ebrei, ma il modo come alcuni di loro si comportano non è il modo con cui Mosè portò il Giudaismo da Dio attraverso la Torah. Uno non deve far altro che guardare alle persone che odiano e che sono guerrafondai, presenti nella cerchia di Bush. Come ha detto un rabbino mio amico, Shmuel Handelman “Essi possono anche chiamarsi Ebrei, ma io dubito che lo siano, e se lo sono, io dico che sono peggio di quanto possa esserlo una cattiva persona“.

In ogni caso, Novak è intelligente e educato abbastanza da sapere la differenza tra Ebreo, Sionista e Semitico!

Un eccellente libro per capire questa problematica è quello di Arthur Koestler (lui stesso Askenazito), “La Tredicesima Tribù”. La ADL ha attaccato e continua ad attaccare questo libro, che è difficilissimo da trovare. Il libro non è una condanna degli Askenaziti e delle loro intenzioni di convertirsi al Giudaismo, ma piuttosto vi si sostiene che non hanno in loro abbastanza DNA per avere gli stessi sentimenti riguardo il Giudaismo e la vita in Medio Oriente, che invece hanno gli Ebrei geneticamente Sefarditi.

Sfortunatamente, il cattivo uso dell’appellativo anti-semita e delle sue conseguenze è tale che perfino presidenti, senatori, uomini del congresso, personaggi importanti dei media, ecc. rabbrividiscono all’idea di essere appellati “anti-semiti” da qualche Sionista o Israeliano o da gruppi sociali, dell’informazione e religiosi, chiaramente ignoranti.
Mi sto riferendo a quei gruppi e individui che appellano le persone, (qualche volta rovinandone la reputazione, gli affari, fino ad attentare alla loro vita stessa) con la parola “anti-semita”, se hanno espresso opinioni contro Israele (che non è uno stato semitico) o contro i Sionisti (un gruppo politico, composto non esclusivamente da Ebrei e che non ha niente a che fare con il Semitico).

Finchè noi non ripuliamo la nostra lingua e non fermiamo l’uso incorretto di questo appellativo, messo in atto da gente senza scrupoli e con ambizioni politiche, rimarremo vittime del cattivo uso di una categoria linguistica legittima, abusato per il beneficio di pochi.

Emmanuel Malynski – La Guerra Occulta

Ci è appena capitato di leggere una recensione dell’opera La guerra occulta di Emmanuel Malynski e Leon de Poncins, finalmente ristampata dalle Edizioni di Ar. È singolare come l’autore di questa recensione, di cui fra poco diremo il nome, riesca a trasformare la presentazione di un evento da accogliere con soddisfazione come l’uscita di un testo così importante per lo studio del volto nascosto della storia, in una requisitoria e in un attacco malevolo contro il curatore e prefattore dell’opera Julius Evola. A sentire lui, sembrerebbe quasi che Evola sia stato costretto da qualcuno ad occuparsi – controvoglia, suo malgrado e con la pistola puntata alla tempia! – di questo libro. Evidentemente non si sa o si finge di non sapere che La guerra occulta è stato fatto conoscere in Italia proprio da Evola, il quale già lo recensì entusiasticamente sulla rivista di Giovanni Preziosi La Vita Italiana del dicembre 1936, subito dopo la sua uscita in Francia; per poi curarne la traduzione in italiano nel 1939, presso Hoepli.

Non solo Evola si fece promotore della diffusione di questo importante testo, ma ne apprezzò ed elogiò l’impostazione di fondo, cercando di trarne spunti metodologici per un ulteriore approfondimento ed una più ampia applicazione di quei criteri metodologici ad altri eventi e ad altri periodi storici non presi in considerazione dal Malynski. Al punto che in un capitolo del suo Gli uomini e le rovine (cap. XIII, “Guerra Occulta – Armi della Guerra Occulta”), definì una volta per tutte cosa dovesse intendersi con quel termine e stilò un vero e proprio manuale per «la conoscenza degli strumenti della guerra occulta».

Ci sembra superfluo qui ricordare tutto quello che Evola ha scritto su ebraismo e massoneria, e sull’influenza storica nefasta di questi due “strumenti” del processo sovversivo: «degli strumenti obbedienti ad influenze ancor più profonde, e che noi chiameremmo volentieri “demoniche”». Nella già ricordata recensione su La Vita Italiana Evola riporta proprio un passo del libro di Malynski: «Una corrente di satanismo percorre la storia, parallela a quella del cristianesimo, in modo altrettanto disinteressato, in lotta perpetua con esso», per poi aggiungere: «Per noi una tale considerazione non è per nulla una fantasia teologica, ma qualcosa di assai positivo. Noi diremmo anzi che essa costituisce il vero punto di riferimento, assai più alto e profondo di quelli del comune e unilaterale antisemitismo». Ma, evidentemente, il considerare ebraismo e massoneria solo degli strumenti, una sorta di taxi che serve per fare un pezzo di strada, per completare una tappa di un processo di avvicinamento ad un progetto ben più ampio, rappresenta uno scandalo per taluni che hanno bisogno di una consolatoria spiegazione a portata di mano. Ma questo atteggiamento è tipico di una visione ristretta ed esclusivamente religiosa, nel senso più popolaresco e grossolano del termine, in cui si pensa che basti salvaguardare l’orticello della propria parrocchia («la società europea e cristiana», nell’occasione!) perché il mondo vada nella direzione desiderata. Semplicemente, essendo privi di qualunque punto di riferimento metafisico, non si è in grado di capire che ci si trova di fronte ad un processo cosmico ed universale, che attraversa i secoli della storia umana, e riguarda civiltà e tradizioni lontanissime l’una dall’altra, nello spazio e nel tempo.

Quando Evola parla di “incrostazioni cospirazioniste”, a proposito del libro di Malynski e De Poncins, parla di un pericolo reale, di un sempre possibile scivolamento in una visione parziale dei fatti storici, guidata solo da impulsi sentimentali più che da un esame oggettivo della realtà. Al punto che può anche sorgere «il sospetto se, alla fine, nel dirigere l’attenzione generale solo su Ebrei e Massoni, quasi a mo’ di idea fissa, tanto da presentarli come i soli responsabili di ogni specie di cose, non si celi qualcosa, come un agguato, non si abbia una tattica per sviare gli sguardi da una visione più completa e per nascondere la vera natura delle influenze distruttrici in parola».

E in effetti il sospetto diventa molto forte, quando vediamo che si ricorre, per attaccare Evola, ad alcuni brani tratti dalla rivista francese R.I.S.S. (Revue international des societes secrets), dove parlando di Evola, sul finire degli anni ‘20, si dice fra l’altro: «Partendo da una specie di sincretismo giudeiforme andava ancora oltre nel suo odio per la Chiesa»; «un agente provocatore dell’inferno, una retroguardia della massoneria e delle sette che perseguitano Cristo con odio implacabile»; «Le teorie di uno strano satanista italiano sono la manifestazione dello stato di spirito giudaico-massonico…»; «Evola potrebbe essere benissimo, in realtà un agente della super massoneria cabalista che riprende il ruolo dell’antico serpente e si identifica nel tentatore della Genesi»; «nei suoi scritti si trova l’odio verso Dio, un odio furioso, schiumoso, veramente satanico. Odio verso il Padre… odio contro il Verbo Incarnato; odio soprattutto della Croce di Cristo».

È veramente singolare che i “tradizionalisti zoppi”, cioè i tradizionalisti a metà, sia che intendano valorizzare sia che intendano demolire il pensiero evoliano, facciano regolarmente ed esclusivamente riferimento all’Evola del primo periodo, quello di Imperialismo pagano e de L’uomo come potenza per intenderci; all’Evola quindi precedente alla definitiva maturazione del suo pensiero ed al corretto radicamento dottrinario della sua opera, risalente agli anni immediatamente successivi al periodo in questione. È come se egli non avesse scritto i libri che ha scritto dopo, non avesse chiarito e corretto le sue posizioni, non avesse dato l’eccezionale contributo intellettuale che ha dato al pensiero tradizionale. Questa volontaria e strumentale mutilazione della sua opera, sparge non poche ombre sulle reali intenzioni e sull’onestà intellettuale dei suoi analisti.

 La R.I.S.S., fonte di questi strali contro Evola entusiasticamente rilanciati dal nostro recensore, era stata fondata nel 1912 da Monsignor Jouin, curato della chiesa Saint-Augustin a Parigi, riprendendo la fiaccola dell’antimassonismo “taxiliano”. Facendo cioè riferimento all’opera del mistificatore Leo Taxil che attraverso accuse grottesche ed esagerate aveva vanificato in realtà qualunque studio serio e documentato degli aspetti meno lusinghieri della setta; svolgendo quindi alla lunga una funzione sovversiva, simile in parte a quella svolta oggi da personaggi come David Icke. Monsignor Jouin, di sicura buona fede, divenne ben presto un semplice prestanome, diventando direttore effettivo Charles Nicoullaud, un ex-massone ed uno strano cattolico che, fra l’altro, accusava i gesuiti di essere i responsabili dell’azione sovversiva di Weishaupt, loro allievo a Ingolstadt; che parlava dei Superiori Sconosciuti, utilizzando termini propri della Teosofia; nonché autore di romanzi licenziosi ed anticlericali, come L’Expiatrice e Zoè, la Theosophe à Lourdes. Ancora più sorprendente risulta però la connivenza di alcuni ambienti della rivista con Aleister Crowley. Ma se si considera che dietro l’incredibile resurrezione del “taxilismo”, a cui la R.I.S.S. attingeva a piene mani, risultava esserci l’Intelligence Service, i conti cominciano a tornare. Si trattava in realtà di un covo di vipere che, almeno per un certo periodo, svolsero un ruolo dal chiaro stampo contro-iniziatico coi loro attacchi a René Guénon, in cui gli articoli non miravano al semplice dibattito intellettuale ma costituivano dei veri e propri supporti di attacchi psichici a cui Guénon rispondeva assegnando ai suoi scritti la medesima funzione.

Ovviamente, in questo sconsiderato attacco ad Evola mascherato da recensione a La guerra occulta, di cui ci stiamo occupando, non è assolutamente il caso di risalire (o forse sarebbe meglio dire: discendere!) ad una possibile ispirazione tifonica, o ipotizzare l’opera di un eventuale incosciente servitore del dio dalla testa d’asino, com’era invece evidente per gli attacchi della R.I.S.S. a René Guénon. Qui, semmai, si ha a che fare solo con un asino, punto e basta! È giunta quindi l’ora di chiamare per nome l’autore di questa pseudo recensione del libro di Malynski e De Poncins: si tratta solo di Fabio de Fina, editore e proprietario del sito effedieffe.com, su cui è apparso il testo in questione. Se la vicenda non vedesse coinvolto, anche se indirettamente, Maurizio Blondet, che stimiamo e reputiamo una delle menti più lucida di questi nostri tempi bui, non ci saremmo certo occupati delle bassezze sopra ricordate. Il fatto è che quando i sacrestani pretendono di scrivere le omelie, vuol dire che la crisi è arrivata ad un punto di non ritorno e che non ci si possono fare delle illusioni su certi ambienti, da cui non potrà venire mai alcun apporto positivo per la costruzione del Fronte della Tradizione. Fabio de Fina, che vive da parassita alle spalle dell’ingegno, l’intelligenza, la sensibilità e la profonda spiritualità di Maurizio Blondet, potrebbe e dovrebbe accontentarsi di svolgere il suo ruolo di editore, e incrementare il suo gruzzoletto, a cui ci risulta tenere così tanto. Ma si sa che certe nature, probabilmente a causa di insuperabili squilibri psichici, non sono in grado di stare al loro posto e quando gli scappa una esternazione non riescono a trattenerla. Com’è stato il caso di questa imprudente recensione al libro La guerra occulta. Ma siccome non vorremmo che, alla lunga, il padrone del sito potesse diventare il tallone d’Achille di Blondet, che di quel sito è l’unico motivo d’interesse e il cui lavoro è troppo prezioso per lasciarlo gestire da simili individui, saremmo tentati di lanciare una crociata per liberare Blondet da de Fina. Si accettano adesioni.

 

Emmanuel Malynski – Il Proletarismo

Emmanuel Malynski, autore del celebre libro La guerra occulta, dedicò la sua attività intellettuale alle trame che si svolgono dietro le quinte della storia ufficiale, e fra i suoi scritti si può leggere in traduzione italiana anche Il proletarismo, pubblicato dalle Edizioni di Ar.

Il libro uscì in Francia nel 1926 col significativo titolo L’Empreinte d’Israël, che si riferisce al ruolo centrale della lobby ebraica nel sistema finanziario, e si tratta di un pamphlet anticapitalista che risulta ancor oggi di straordinaria attualità. Infatti già la seconda guerra mondiale aveva evidenziato il collaborazionismo fra capitalismo e comunismo, e i recenti sviluppi della globalizzazione non fanno altro che confermare ogni giorno di più l’intima affinità fra due sistemi sociali che hanno la comune origine nella concezione economicistica della vita. Con la scomparsa del blocco sovietico si poteva sperare di vedere la fine definitiva dell’omologazione egualitaria che ha dato origine alla modernità, invece il capitalismo ha dimostrato di essere il degno successore del comunismo, raccogliendone l’eredità ideologica nonché i metodi autoritari e polizieschi. Quasi un ideale passaggio di consegne tra le due facce della sovversione!

Malynski analizza nel suo libro la nascita dello spirito borghese. La fine dei sistemi feudali, basati sulla collaborazione gerarchica dei ceti sociali, aprì la strada a una utopica uguaglianza dietro la quale si nascondeva lo sfruttamento capitalistico coi suoi presupposti internazionalisti. Mentre nei sistemi feudali il benessere dei contadini era proporzionale alla ricchezza del relativo signore, nel sistema capitalista lo stipendio degli operai non è affatto proporzionale alla ricchezza dei loro padroni, anzi il divario tende ad allargarsi. Il capitalismo, con la mistificazione della democrazia, ha dato ai subalterni l’illusione di poter contare qualcosa nella vita pubblica: il numero è divenuto signore assoluto, decretando anche in questo campo la vittoria dell’economia sulla politica.

La logica avrebbe voluto che la lotta contro il capitalismo dovesse essere prerogativa della classe nobiliare in alleanza col contadinato. Invece la borghesia inventò droghe ideologiche come il socialismo, il comunismo, l’anarchismo… In questo modo le masse operaie venivano inglobate nel sistema, il cui presupposto è un collettivismo in cui scompaiono le personalità individuali. Il pensiero farraginoso di Marx, chiaramente ispirato ai sofismi delle scuole rabbiniche, è divenuto il catechismo del mondo moderno.

Mentre il senso della proprietà è innato, il sistema capitalista è artificioso e contro natura, e le categorie di ricco e di povero non sempre coincidono con quelle di sfruttatore e di sfruttato: nel capitalismo chi diventa ricco col lavoro e con l’esercizio di attività produttive diviene più facilmente vittima di un sistema bancario usurocratico. In questo modo l’iniziativa privata viene scoraggiata e si prepara la strada al collettivismo.

Fra le strategie di lunga durata perseguite dal fronte della sovversione c’è la distruzione della famiglia, che oggi è quasi giunta a compimento. Malynski notava già negli anni ’20 come le incipienti rivendicazioni femministe stessero innescando una “guerra dei sessi” destinata a cancellare le identità di genere sessuale, per indebolire la personalità degli individui fin nelle fondamenta più elementari.

Mentre il mondo tradizionale si reggeva sui principi della proprietà, della sovranità e della personalità, il mondo moderno ha offuscato le intelligenze con le nebulose astrazioni della società, dell’umanità, del capitale, del proletariato… Su queste inverosimili parole d’ordine poggia la fortuna di una classe dirigente parassitaria che ancora oggi vive coi frutti della speculazione finanziaria in una parodia dell’ordine sociale che è la negazione della giustizia, del buon senso, della logica e dell’evidenza.

L’alternativa al sistema capitalista è rappresentata dalle comunità organiche che realizzano condizioni di totalità sociale in cui il sistema di gerarchie e di relative responsabilità è garante anche dei diritti di cui godono i membri della comunità. I sistemi sociali moderni, invece, sono caratterizzati dalla più totale irresponsabilità: nelle democrazie moderne fin dalla scuola i giovani migliori vengono demotivati e si realizza un vero e proprio sistema di selezione al contrario in cui gli elementi più furbi, più prepotenti e più meschini vengono incoraggiati ad assumere comportamenti delinquenziali.

Malynski analizzava il processo di decostruzione delle coscienze con una lucidità che sarebbe opportuno vedere negli intellettuali del XXI secolo. Commentando gli astrusi luoghi comuni della retorica progressista, Malynski afferma: “viene dato il nome di libertà al non essere padroni in casa propria”. Una frase davvero profetica che sembra descrivere il processo di esproprio della sovranità che il capitalismo mondialista sta portando avanti e che, evidentemente, è la premessa all’esproprio della proprietà privata personale: un modo come un altro per realizzare il comunismo!

Emmanuel Malynski – Fedeltà Feudale e Dignità Umana

Il presente saggio, opera di autore di area cattolico-tradizionalista di origini aristocratiche polacche, venne pubblicato in Francia per le edizioni “de Beauchesne” nel 1936 e tradotto – e curato nella sua prima edizione italiana – da Julius Evola per la casa editrice milanese “Hoepli” che lo pubblico’ tre anni piu’ tardi con il sottotitolo “Armi e fasi dell’attacco ebraico-massonico alla tradizione europea” inserendo un ventiduesimo capitolo (“Conclusione: L’Europa alla riscossa” che non compare nell’edizione originale francese) che venne aggiunto di comune accordo tra il traduttore e curatore dell’edizione originaria (il visconte francese Leon de Poncins) con il noto filosofo italiano fautore all’epoca di un tentativo di rettificazione anche ideologica all’interno del Regime Fascista mediante la pubblicazione di una serie di saggi sulla Razza e sulla questione ebraica.

L’autore, il conte Emmanuel Malynski, estintosi a Losanna nel 1938 era nato nella Polonia russa. Uomo di vasta cultura ma anche d’azione (fu pilota aviatore durante la prima guerra mondiale, noto schermitore, sportivo ed esploratore) dedico’ gran parte dei suoi studi alla fenomenologia cospirazionista e alle dinamiche ed ai processi di sviluppo sociali applicando a tali tematiche una lucidita’ quasi preveggente che ispiro’ tutte le sue opere.

Oltre alla presente sono state tradotte in italiano (e sempre per i titoli delle Edizioni di “Ar”) le opere dedicate alla “Fedelta’ feudale e dignita’ umana” e quella su “Il proletarismo” entrambe fondamentali per comprendere le dinamiche di sviluppo e di espansione dell’anti-tradizione, i suoi obiettivi piu’ o meno occulti e le conseguenze nefaste che questo vero e proprio piano sovversivo realizzato da menti diaboliche “superiori” (…Illuminati di Baviera, Frammassoni e Giudei….quando si dice la “genialita’ del Male”…) per la destabilizzazione e la disintegrazione dell’ordine tradizionale nel Vecchio Continente a partire dal XVIIImo secolo fino ai giorni nostri.

Gustav Meyrink – La Notte di Valpurga

La notte di Valpurga, è uno dei romanzi più significativi del Novecento. Fu scritto da un autore che, insieme a Franz Kafka e a Rainer Maria Rilke, è tra i protagonisti della letteratura cecoslovacca e mitteleuropea.

Dotato di un caratteristico stile grottesco, fantastico, espressionista, Meyrink, da un certo momento della sua vita, a seguito di una profonda crisi, si dedicò a temi lagati all’occultismo e al mistero.

La notte di Valpurga, la notte delle streghe – celebrata tra il 30 aprile e il primo maggio – appartiene alle leggende e alle tradizioni della letteratura demoniaca, ma, nelle pagine di Meyrink, diventa la rappresentazione dell’apocalisse di un mondo, l’inabissarsi di un impero – quello austroungarico – la fine di un secolo.

Notte di scontro di desideri e di passioni del corpo e dell’inconscio, essa simboleggia lo sfacelo che l’Europa visse nel 1917, mentre infuriava la prima guerra mondiale e iniziava la rivoluzione russa. Lo scrittore austriaco ha saputo magistralmente tratteggiare quest’umanità dolente, sconvolta tra realtà e sogno, l’ipocrisia borghese e la crescente follia che serpeggiò in quegli anni nel vecchio continente.

Gustav Meyrink – Il Volto Verde

«I fatti della vita di Meyrink sono meno problematici della sua opera… Monaco, Praga e Amburgo si divisero gli anni della sua giovinezza. Sappiamo che fu impiegato di banca e che aborrì quel lavoro. Sappiamo anche che tentò due rivincite o due forme di evasione: lo studio confuso delle confuse “scienze occulte” e la composizione di scritti satirici». Con queste parole, nel 1938, Borges presentava impavidamente ai lettori argentini Meyrink, autore onirico per eccellenza, in cui si realizza il fatale incontro tra l’occulto e il feuilleton. Ed è nel Volto verde che Meyrink raggiunge il vertice della sua arte di «romanziere chimerico» e del suo stile «mirabilmente visivo» – e il vertice del suo istrionismo, se con questa parola si intende una strepitosa capacità di insufflare vita narrativa nelle più ardue immagini esoteriche: in questo caso la leggenda del volto verde, ossia del volto evanescente di colui che detiene «le chiavi dei segreti della magia» e, immortale, è rimasto sulla terra per radunare gli eletti.

Gustav Meyrink – Il Golem

L’antico misterioso ghetto ebraico di Praga e le leggende fiorite intorno ad esso sono rappresentate in questo romanzo, il più noto di Meyrink.

In un’atmosfera surreale ed onirica, con una narrazione interrotta e barocca a metà strada tra l’espressionismo e il surrealismo, giocando sulla contrapposizione tra sogno e realtà, attingendo alla Kabbala, al simbolismo dei tarocchi, alla leggenda (rivisitata) del Golem e ad altre tradizioni ebraiche (nella loro volgarizzazione), il romanzo si snoda tra visioni, sdoppiamenti, apparizioni fantasmatiche, magie e misteri.

Ma nell’opera di Meyrink il Golem non è un uomo d’argilla come quello creato dal Rabbi Löw all’epoca di Rodolfo II, bensì un fantasma, un’ombra che ogni 33 anni si aggira per il ghetto sconvolgendo i suoi abitanti. Della sua esistenza nessuno è certo, così che lo si può vedere anche in senso psicanalitico come materializzazione dei timori di coloro che credono di averlo visto, o come rappresentazione del ‘doppio’. Un romanzo moderno quindi, di stampo novecentesco, distante dalla Praga medievale cui rimanda invece il Golem della tradizione.

Gustav Meyrink – Il Domenicano Bianco

Quando, dopo la larga notorietà raggiunta coi suoi romanzi esoterici maggiori: «Der Golem », «Das grüne Gesicht » e « Walpurgisnacht », Gustavo Meyrink pubblicò nel 1921 « Der weisse Domenikaner», una vivace discussione si accese fra gli esoteristi a proposito delle strane dottrine Taoiste che formano lo sfondo dottrinale del racconto. Molti, anche fra i più colti, posero perfino in dubbio l’esistenza di così singolari credenze, delle quali anche le maggiori enciclopedie non fanno cenno. Per mettere a disposizione degli studiosi alcuni elementi originali di orientamento, G. R. S. Mead, in due numeri successivi (2 e 3) della « Quest » di Londra, del 1924, tradusse dal tedesco alcuni estratti di « Leggende alchimiche taoiste », tradotte a loro volta dal cinese in tedesco dal prof. A. Pfizmaier, membro dell’Accademia di Vienna, e pubblicate fin dal 1870 nel vol. LXIV degli Atti Filosofici dell’Accademia. Chi voglia approfondire la ricerca può dunque accedere alle fonti dirette e di prima mano, A noi basta qui riprodurre alcune delle più tipiche fra queste brevi leggende, malgrado il carattere vago ed oscuro dei testi, dovuto in parte al caattere stesso della scrittura e del linguaggio cinese, in parte alla natura esoterica dell’argomento.
Le opere taoiste parlano sovente di note trasformazioni come preliminari o mezzi per raggiungere il più alto scopo della sublimazione spirituale alchemica. Col termine di Shi-Kiai, la «soluzione del cadavere», gli antichi autori indicano uno stato in cui la forma di un « dipartito », cioè di uno che è riuscito a dissolvere il suo corpo fisico, diviene invisibile mentre l’adepto consegue l’immortalità. In certi casi incompleti il corpo perde solo il suo peso, ma continua a mantenere l’appartenenza di una persona vivente. Con l’altro termine di Kieu-Kìai, la « soluzione della spada », si afferma che nella bara del « dipartito » non resta che una spada (qualche volta un coltello, o un bastone o altro) in luogo del cadavere. Ambedue le metamorfosi o « soluzioni » formano l’enigmatico segreto che le leggende della « Via » (Tao) nell’estremo Oriente espongono in modo oscuro e fantasioso. Forse l’immagine di una spada fisica non è che il simbolo sotto cui si nascondono i processi di trasmutazione del corpo sottile dell’adepto in un’arma psichica o strumento di potere. Il Grande Libro della Preziosa Spada dice : Col metodo della Dissoluzione del Cadavere può avvenire che si muoia e poi che si ritorni in vita. Può avvenire che, troncata, la Testa ricompaia da un’altra parte. Può avvenire che la Forma rimanga, ma che le Ossa scompaiano, Il dissolversi del Cadavere rappresenta in realtà il raffinarsi e il cambiar pelle dei Veri Uomini.

Gustav Meyrink – Il Cardinale Napellus

Il cardinale Napellus è il titolo di un’antologia di racconti dello scrittore austriaco Gustav Meyrink (pseudonimo di Gustav Meyer). Il ruolo più importante, è svolto dall’Aconito, che è identificato con le credenze religiose e collegato al concetto di destino.

In Italia è stata pubblicata da Franco Maria Ricci Editore nella collana La Biblioteca di Babele nel 1976 e ristampata da Mondadori nel 1993 nella collana Oscar La Biblioteca di Babele.

Adolf Hitler – La Mia Battaglia (Mein Kampf) prima edizione 1934

I popoli che combattono per sublimi idee nazionali hanno forza di vita e ricchezza d’avvenire. Tengono nelle proprie mani i loro destini. Non di rado le loro forze, creatrici di comunità, sono valori di portata internazionale, aventi per la convivenza dei popoli effetti più benefici che gli « immortali principii » del liberalismo, i quali intorbidano e avvelenano i rapporti fra le Nazioni.
Il Fascismo e il Nazionalsocialismo, intimamente connessi nel loro fondamentale atteggiamento verso la concezione del mondo, hanno la missione di segnare nuove vie ad una feconda collaborazione internazionale. Comprenderli nel loro senso più profondo, nella loro essenza, significa rendere servigio alla pace del mondo e quindi al benessere dei popoli.

Adolf Hitler
Berlino, 2 Marzo 1934

Dettato nel 1924 da Adolf Hitler a Rudolf Hess – entrambi prigionieri nella Festungshaftanstalt (fortezza di reclusione) di Landsberg -, e da quest’ultimo dattiloscritto, Mein Kampf (La mia lotta) si compone di due volumi. Il primo volume, intitolato “Eine Abrechnung” (“Un resoconto”) – in dodici capitoli che, muovendo dalla persona dell’Autore, rivelano la personalità della impresa politica da lui personificata -, viene pubblicato il 18 luglio 1925. Il secondo volume, intitolato “Die nationalsozialistische Bewegung” (“Il movimento nazionalsocialista”) – in quindici capitoli, che considerano i fondamenti ideologici e la dinamica politica del nazionalsocialismo -, viene pubblicato l’ 11 novembre 1926. (In séguito – 1930 – i due volumi sono riuniti in un unico tomo.)

Affidata ai tipi di Valentino Bompiani, l’articolazione e la diffusione del Mein Kampf in lingua italiana descrive, in alcuni tratti, un profilo curvilineo e volubile. Sul finire del marzo 1934, spunta infatti, per prima, la versione italiana del secondo volume dell’opera, con un titolo sonoro: “La mia battaglia”. Un titolo, che non vuole copiare la ‘impassibilità’ di quello originale, ma, risonante di impeto e vivacità, ci appare oggi una anticipazione-ricapitolazione dei grandi fragori bellici successivi. Introduce “La mia battaglia” una “prefazione inedita dell’Autore per la edizione italiana”, e una giustificazione dell’editore per la esclusione dal libro italiano del primo volume tedesco. (Nessuna giustificazione, invece, per la omissione del nome dell’onesto mediatore tra le due lingue: Angelo Samuele Treves.)

Trascorre qualche tempo prima che appaia, sul finire dell’aprile 1938, “La mia vita”, versione italiana di “Eine Abrechnung”. Qui, nel titolo italiano, anziché voltata, viene volteggiata (un volteggio indiscreto, da resoconto di sé, da diario intimo) l’originaria titolatura tedesca – dal timbro invece oggettivo di messa a punto, di consuntivo.
A differenza de “La mia battaglia”, “La mia vita” reca il nome del curatore della traduzione: Bruno Revel. (Quest’ultimo passatore, a differenza del Treves, non attira l’astiosa esuberanza censoria di Delio Cantimori e, nell’unico tomo che, successivamente, riunisce i due volumi, figura come il traduttore italiano dell’intero Mein Kampf)
Ma, nonostante le sue manchevolezze veniali, quella di Bompiani rimane l’edizione italiana riguardevole e memorabile, ‘storica’, del Mein Kampf. In pochissimi esemplari, la sua scrittura viene quindi ripresa da questa collezione di Ar: con un riguardo, non tanto ricognitivo amatoriale quanto rievocativo reverenziale, attento all’ultima delle classiche “grandes oeuvres politiques” europee.

Samuel Schaerf – I Cognomi degli Ebrei d’Italia

I COGNOMI DEGLI EBREI D’ITALIA

Il presente testo è fedelmente estratto dall’omonimo volume pubblicato dall’ebreo Samuele Schaerf nel 1925 (5865) per i titoli della Casa Editrice “Israel” di Firenze.

E’ il principale strumento di studio, anche se non il solo, relativo alla ‘catalogazione’ nominalistica dell’elemento ebraico nel nostro paese.

Non esiste finora in Italia nessun lavoro, né completo né incompleto, che parli sui cognomi degli Ebrei italiani e perciò credo utile di dare alla stampa il materiale da me pazientemente raccolto e che mi servì come tema di conferenza in alcune città d’Italia.

La difficoltà della lingua mi sconsiglia quasi di intraprendere la trascrizione del materiale corrispondente, ma col presente opuscolo desidero solo ricordare agli studiosi questo ramo di storia ebraica, che è pure interessante non solo, ma importantissimo per gli Ebrei d’Italia, e che non ha richiamato sopra di sé, da nessuna parte, una maggiore attenzione. Mentre in Germania, Ungheria e Czecoslovacchia esistono lavori simili, in Italia mancano completamente. Ma di più, mentre studiosi di valore come lo Steinschneider, il nostro Prof. Cassato e pochi altri, danno una grande importanza nei loro lavori a questa parte della storia degli Ebrei italiani i più indicano soltanto fugacemente qualche pagine all’argomento, contentandosi col dire che i cognomi degli Ebrei italiani derivano in massima da nomi di città, non indagando oltre. Dobbiamo dire che non solo gli Ebrei italiani, ma gli italiani in genere, mancano ancora molto di lavori di Onomatologia. Solamente da un decennio ci è stata promessa la pubblicazione di un dizionario di cognomi italiani, ma chi sa quando questo sogno diventerà realtà.

Renato Del Ponte – Evola e il Magico Gruppo di UR

Evola e il magico “Gruppo di UR”
Renato del Ponte
Edizioni SEAR, pagg.200, Euro 18,00

IL LIBRO – Questo volume, frutto di oltre un ventennio di ricerche, è la prima opera organica e documentata che si pubblica sul raggruppamento ermetico, fondato e diretto da Julius Evola, che svolse la sua attività negli anni dal 1927 al 1929 e che destò tanto interesse, e così vasta e durevole eco, che ancora oggi a quasi settant’anni dal suo scioglimento costituisce un punto di riferimento obbligato per tutti gli studiosi di esoterismo. Completano l’opera otto riproduzioni in bianco e nero fuori testo.

DAL TESTO – “L’esperienza che sul finire degli anni Venti condusse Julius Evola a valersi della collaborazione delle più interessanti figure dell’esoterismo italiano ed a costituire il famoso “Gruppo di Ur”, indipendentemente dal valore e dall’esempio che ha fornito e continua a fornire a chi si occupi seriamente di scienze esoteriche, riveste una importanza notevolissima nell’ambito della complessiva produzione evoliana, se si consideri che fu proprio in questo periodo che Evola arrivò ad estendere i propri interessi nei dominÎ veri e propri della Tradizione e che almeno due fra le sue opere principali: ‘Rivolta contro il mondo moderno’ e ‘La tradizione ermetica’, sono contenute in nuce in alcune delle monografie edite da “Ur”. In tal modo, questa esperienza non può essere trascurata (ed è utile indagarne i precedenti, i limiti e gli esiti) qualora della produzione evoliana si vogliano considerare i punti essenziali e necessari a comprenderne lo spirito”.

L’AUTORE – Nato a Lodi nel 1944, è vissuto a lungo in Lunigiana dove ha insegnato italiano e latino nei Licei.
Storico delle idee e del diritto religioso arcaico, studioso di storia delle religioni e di simbolismo, ha fondato e dirige dal 1972 Arthos. Quaderni annuali di cultura e testimonianza tradizionale: rivista di studi e approfondimenti di carattere storico, archeologico, filologico e religioso.
Nel 1971 ha curato l’edizione critica di un trattato politico medievale: il Tractatus de protestate summi Pontificis di Guglielmo da Sarzano; nel 1987 ha tradotto e commentato la Relatio III di Quinto Aurelio Simmaco; nel 1993 ha tradotto il saggio su Tito di B.W. Jones.
Animatore culturale e conferenziere, studioso di storia delle religioni,di simbolismo e di storia delle idee (p.e. del «Movimento Tradizionalista Romano»), ha pubblicato numerosi libri e articoli.

INDICE DELL’OPERA – Premessa e Bibliografia – JULIUS EVOLA E L’ESPERIENZA DEL “GRUPPO DI UR” – Le Premesse – Il “Gruppo di Ur” e le sue riviste – Dall’esoterismo all’azione tradizionale – Le personalità e le “scuole” – Contenuti ed argomenti – Documenti – A. TESTI INEDITI DAL 1927-29 DI J. EVOLA – 1. Gli “inserti” di “Ur”-“Krur” – 2. “Diffida contro Ignis” – 3. Comunicati ai lettori (dai risvolti di copertina di “Ur” e “Krur”) – 4. Pubblicazioni ricevute (segnalazioni librarie e brevi recensioni sui risvolti di copertina di “Ur” e “Krur”) – B. TESTIMONIANZE 1927-1948 – 1. Giovanni Battista Montini: “Una nuova rivista” (1928) – 2. Giovanni Costa: “Da Plotino alla magia di Evola e Giuliotti” (1928) – 3. René Guénon: recensioni di numeri di “Krur” (1929-30) – 4. René Guénon: dalla corrispondenza a Guido De Giorgio (1927-30) – 5. René Guénon: dalla corrispondenza a Julius Evola (1947-48) – INDICE RIEPILOGATIVO DEI COLLABORATORI DI “UR” E “KRUR” E DEI LORO PSEUDONIMI (Iconografia: copertine di “Ur” e “Krur”, dediche di libri e opuscoli)

Protocolli dei Savi Anziani di Sion – anastatica originale 1938

Nei primi anni del Novecento iniziò a circolare in Europa un misterioso e controverso libro dal titolo “I Protocolli dei Savi Anziani di Sion”. Al suo interno veniva descritto con precisione il piano di conquista del mondo da parte della comunità ebraica, che si sarebbe dovuto realizzare attraverso il controllo dei punti nevralgici delle moderne società occidentali, quali la finanza, la stampa, l’economia, gli eserciti militari, la morale e la cultura.

 

J B Pranaitis – Il Talmud Smascherato Gli Insegnamenti Segreti Dei Rabbini Sui Cristiani

I segreti della dottrina rabbinica. Cristo e i cristiani
nel Talmud. Edizione con testi ebraici a fronte ed una introduzione di
Mario De’ Bagni, Roma, Tunminelli, 1939 molt. restampe.

Vries de Heekelingen – Israele, il suo passato, il suo avvenire

Oltre a Israele, il suo passato, il suo avvenire (Tumminelli, Roma 1937), Vries de Heekelingen pubblicò in Italia alcuni articoli: Fascismo ed Ebraismo (“L’Idea di Roma”, dicembre 1938), L’eterna questione ebraica e la sua soluzione (“Difesa della Razza”, 5 novembre 1939), Il cristiano di fronte al problema ebraico (“L’Idea di Roma”, aprile-maggio 1940) e il saggio intitolato L’atteggiamento del Talmud di fronte al non-ebreo (“La Vita Italiana”, giugno 1940). Questo saggio (un adattamento dell’expertise presentata al Tribunale di Losanna) è stato più volte ripubblicato nel dopoguerra: in appendice a Claudio Mutti, Ebraicità ed ebraismo. I Protocolli dei Savi di Sion (Edizioni di Ar, Padova 1976), nell’opuscolo Il Talmud e i non ebrei (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1991), nel primo ed unico numero della rivista “La questione ebraica”, 1, agosto 1998, pp. 57-68. La traduzione italiana dell’expertise (Il talmud e il non ebreo) si trova in: Johannes Pohl – Karl Georg Kuhn – H. Vries de Heekelingen, Studi sul Talmud (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1992).

Israel Shahak – Storia Ebraica e Giudaismo

Alla fine degli Anni Cinquanta, quel grande pettegolo e storico dilettante che era John F. Kennedy mi disse che nel 1948 Harry Truman, proprio quando si presentò candidato alle elezioni presidenziali, era stato praticamente abbandonato da tutti. Fu allora che un sionista americano andò a trovarlo sul treno elettorale e gli consegnò una valigetta con due milioni di dollari in contanti. Ecco perché gli Stati Uniti riconobbero immediatamente lo Stato d’Israele.
A differenza di suo padre, il vecchio Joe, e di mio nonno, il senatore Gore, né io né Jack eravamo antisemiti e così commentammo quell’episodio come una delle tante storielle divertenti che circolavano sul conto di Truman e sulla corruzione tranquilla e alla luce del sole della politica americana.

Purtroppo, quell’affrettato riconoscimento dello Stato d’Israele ha prodotto quarantacinque anni di confusione e di massacri oltre alla distruzione di quello che i compagni di strada sionisti credevano sarebbe diventato uno stato pluralistico, patria dei musulmani, dei cristiani e degli ebrei nati in Palestina e degli immigrati europei e americani, compreso chi era convinto che il grande agente immobiliare celeste avesse dato loro, per l’eternità, il possesso delle terre della Giudea e della Samaria. Poiché molti di quegli immigrati, quando erano in Europa, erano stati sinceri socialisti, noi confidavamo che non avrebbero mai permesso che il nuovo stato diventasse una teocrazia e che avrebbero saputo vivere, fianco a fianco, da eguali, con i nativi palestinesi.

Disgraziatamente, le cose non andarono così. Non intendo passare ancora una volta in rassegna le guerre e le tensioni che hanno funestato e funestano quella infelice regione. Mi basterà ricordare che quella frettolosa invenzione dello Stato d’Israele ha avvelenato la vita politica e intellettuale degli Stati Uniti, questo improbabile patrono d’Israele. Dico improbabile perché, nella storia degli Stati Uniti, nessun’altra minoranza ha mai estorto tanto denaro ai contribuenti americani per Investirlo nella “propria patria”. E’ stato come se noi contribuenti fossimo stati costretti a finanziare il Papa per la riconquista degli Stati della Chiesa semplicemente perché un terzo degli abitanti degli Stati Uniti sono di religione cattolica.

Se si fosse tentata una cosa simile, ci sarebbe stata una reazione violentissima e il Congresso si sarebbe subito opposto decisamente. Nel caso degli ebrei, invece, una minoranza che rappresenta meno del due per cento della popolazione ha comprato o intimidito settanta senatori, i due terzi necessari per nullificare un comunque improbabile veto presidenziale, e si è valsa del massiccio appoggio dei media.
In un certo senso, ammiro il modo in cui la lobby ebraica è riuscita a far sì che, da allora, miliardi e miliardi di dollari andassero ad Israele “baluardo contro il comunismo”. In realtà, la presenza dell’URSS e il peso del comunismo sono stati, in quelle regioni, men che rilevanti e l’unica cosa che noi americani siamo riusciti a fare è stato di attirarci l’ostilità del mondo arabo che prima ci era amico.

Ancora più clamorosa è la disinformazione su tutto quanto avviene nel Medio Oriente e se la prima vittima di quelle sfacciate menzogne è il contribuente americano, all’opposto lo sono anche gli ebrei degli Stati Uniti che sono continuamente ricattati da terroristi di professione come Begin o Shamir. Peggio ancora, salvo poche onorevoli eccezioni, gli intellettuali ebrei americani hanno abbandonato il liberalismo per stipulare demenziali alleanze con la destra politico religiosa cristiana, antisemita, e con il complesso militare-industriale del Pentagono. Nel 1985, uno di quegli intellettuali dichiarò apertamente che quando gli ebrei erano arrivati negli Stati Uniti avevano trovato «più congeniali l’opinione pubblica e i politici liberali ma che, ora, è interesse dell’ebraismo allearsi ai fondamentalisti protestanti perché, dopo tutto, ‘Vè forse qualche ragione per cui noi ebrei dobbiamo restar fedeli, dogmaticamente e con l’ipocrisia, alle idee che condividevamo ieri?».

A questo punto, la sinistra americana si è divisa e quelli di noi che criticano i nostri ex-alleati ebrei per questo loro insensato opportunismo vengono subito bollati con i rituali epiteti di “antisemita” o di “odiatori di se stessi”.
Per fortuna, la voce della ragione è ancora viva e forte e viene proprio dalla stessa Israele. Da Gerusalemme, Israel Shahak, con le sue continue e sistematiche analisi, smaschera la sciagurata politica israeliana e lo stesso Talmùd, in altre parole l’effetto che ha tutta la tradizione rabbinica sul piccolo Stato d’Israele che i rabbini di estrema destra di oggi vogliono trasformare in una teocrazia riservata ai soli ebrei.

Shahak guarda con l’occhio della satira tutte le religioni che pretendono di razionalizzare l’irrazionale e, da studioso, fa risaltare le contraddizioni contenute nei testi. E’ un vero piacere leggere, con la sua guida, quel grande odiatore dei gentili che fu il dottor Maimonide!
Inutile dire che le autorità israeliane deplorano l’opera di Shahak ma non possono far nulla contro un docente universitario di chimica in pensione, nato a Varsavia nel 1933 che ha passato alcuni anni della sua infanzia nel campo di concentramento nazista di Belsen. Nel 1945 Shahak andò in Israele; ha prestato servizio nell’esercito israeliano e non è diventato marxista negli anni in cui essere marxisti era di gran moda. Shahak era, ed è, un umanista che detesta l’imperialismo sia che si manifesti come il Dio di Abramo che come la politica di George Bush e, con lo stesso vigore, la stessa ironia e competenza, si oppone al nocciolo totalitario del giudaismo.

Israel Shahak è un Thomas Paine più colto che continua a ragionare e, di anno in anno, ci rivela le propsepttive che abbiamo e ci dà gli strumenti per chiarirci la lunga storia che sta alle nostre spalle.
Coloro che si preoccupano per lui saranno forse più saggi o, – devo proprio dirlo? – migliori, ma Shahak è il più recente, se non l’ultimo, dei grandi profeti.

Gianantonio Valli – La fine dell’Europa – Il ruolo dell’Ebraismo

Non senza un certo impegno, del resto ben meritato, abbiamo terminato la lettura di un eccellente testo appena pubblicato dalle Edizioni Effepi di Genova e realizzato da Gianantonio Valli: “La fine dell’Europa – Il ruolo dell’ebraismo” (€ 85,00), un opera di 1.360 pagine (ma ancor più voluminosa se si considera l’ampio formato del libro ed i piccoli caratteri utilizzati) di importanza fondamentale per la storiografia contemporanea, ma non solo, quasi una summa della ricerca storica sull’argomento trattato.
L’autore, che oltre a saggi e libri vari, aveva già realizzato un altra opera monumentale “I complici di Dio – Genesi del mondialismo” (di circa 6.000 pagine se rapportate ad un normale formato editoriale), in massima parte incentrata sul ruolo dell’ebraismo nella cinematografia e tutte le conseguenze a questo ruolo correlate nella genesi del mondialismo, in questa nuova opera spazia su oltre un secolo di storia, il XX, riallacciandosi a tutti quegli antecedenti che gli sono connessi, e fa emergere, con estrema chiarezza, le origini, le trame e le cause che hanno condotto ai nostri giorni, dove oramai possiamo constatare la “fine dell’Europa”, con le sue tradizioni e culture e le sue genti spazzate via da un nuovo ordine mondiale imposto dalla forza bruta delle armi e annichilita da un forzato melting pot, un crogiuolo multietnico di razze e culture, che già fanno prefigurare un futuro e diffuso meticciato planetario che spazzerà definitivamente via una civiltà millenaria senza neppure lasciarne il “ricordo” nelle future generazioni inevitabilmente prive di radici storiche, culturali e di razza.
E tutto questo non è accaduto per caso, perchè fin da tempi immemori ci sono stati ideali, uomini e mezzi che hanno perseguito questo scopo.
La ricerca storiografica dell’autore, supportata da una bibliografia di oltre 4.000 titoli, fa emergere con estrema chiarezza i progetti e i sottili fili che hanno mosso e interconnesso tra loro volontà e personaggi che oggi sintetizziamo approssimativamente nel termine “mondialismo”, una tendenza ed un progetto finalizzato ad una ideale Repubblica Universale.
Massonerie, ebraismo internazionale, Alta finanza, sponde geopolitiche atlantiche (Gran Bretagna e soprattutto gli Usa con il loro spaventoso potenziale finanziario e industriale e la loro american way of life), sono stati in genere gli artefici di questa “grande opera” massonica e l’autore li delinea uno per uno, ne ricorda e ne illustra le cointeressenze, i segreti allacci, gli uomini, le posizioni assunte nelle recenti vicende storiche. E dalla ricerca escono fuori inevitabilmente le figure e il ruolo dell’ebraismo che viene a trovarsi al centro di questo progetto distruttivo per la civiltà europea e realizzativo per il sogno del “grande Israele”. Un ebraismo che risulta come la vera “anima nera” nella sovversione degli antichi e consolidati costumi, valori e tradizioni e nell’annientamento, tramite la potenza delle armi, delle nazioni a questi progetti riottose.
Questa indagine storica, precisa, documentata, analitica, non può che evidenziare come nella prima metà del secolo XX, quasi per una sorta di miracolo, il processo mondialista, già avanzato dopo l’esito della Grande Guerra, venne ad interrompersi grazie alla reazione vittoriosa messa in atto da uomini e ideali che portarono all’avvento dei regimi fascisti in Italia e in Germania.
Ma la controreazione dell’ebraismo fu immediata e veemente, una vera e propria dichiarazione di guerra, a tutto campo, alla Germania nazionalsocialista e per riflesso all’Italia fascista.
Le posizioni di potere, da anni raggiunte e detenute dall’ebraismo e dalla massoneria ed esso sodale, in nazioni dall’avanzato progresso industriale e finanziariamente forti, sull’asse Londra/New York, gli consentirono alla fine di scatenare una guerra di distruzione totale per la Germania e l’Italia e il conseguente perfido programma di “rieducazione“ di massa dei rispettivi popoli.
L’analisi tocca anche aspetti ideologici e culturali, soffermandosi spesso su la parte avuta dalla cinematografia, questa nuova arte esplosa nel secolo scorso che ha fatto da supporto e spesso da battistrada ai cambiamenti epocali ed ha ampliato a dismisura quelli che erano sempre stati i soliti mezzi della “propaganda di guerra”.
Grandi case di produzione, produttori, registi, scenografi, attori, ecc., in massima parte, guarda caso, di origine ebraica, tutti coinvolti non solo in un grande business, ma in una vera e propria manipolazione dell’opinione pubblica e dell’inconscio collettivo tanto da imporre a società e culture affatto diverse e antitetiche, stili di vita, comportamenti, mode, tendenze ideali e politiche. Una cinematografia divenuta, nel secolo delle masse, una micidiale “arma” bellica che venne ad affiancarsi al già consolidato “quarto potere”, quello della stampa.
Constateremo allora come, in realtà, il Novecento con le sue due guerre mondiali, può di fatto essere ricondotto ad un solo spaventoso evento bellico, diviso in due atti: Grande Guerra e Seconda Guerra mondiale, attraverso il quale venne portato un criminale attacco militare all’Europa con il fine di annientarla fisicamente. Nel primo atto vennero spazzate via le ultime, seppur decadenti vestigia e gli Stati improntati a forme istituzionali e tradizioni, per così dire, di Trono e Altare, atavici nemici della massoneria e nei quali l’ebraismo pur vi dimorava placidamente e vi trafficava, ma non erano certamente il suo ideale di vita e di società, essendo questi costituiti dalle forme repubblicano democratiche delle Istituzioni e dalle strutture liberiste per la finanza e l’economia, tipiche delle Nazioni occidentali.
Nel “secondo atto”, che nel frattempo vide esplodere il fenomeno bolscevico che andò ad aggiungersi alla volontà democratica e capitalista contro l’Europa, furono invece spazzati via i regimi nazional popolari d’Italia e Germania, che quasi per uno di quei miracoli che la storia qualche volta concede, avevano momentaneamente spezzato e interrotto il progetto distruttivo della civiltà europea. Ma Italia e Germania furono dapprima isolate, poi minacciate e ricattate ed infine aggredite e costrette ad una guerra apocalittica e con mezzi impari.
L’Europa così definitivamente annientata venne infine occupata brutalmente, colonizzata, divisa a Jalta da una spartizione di nazioni, cruentemente ridisegnate nei loro confini etnici e geografici, che avrebbe visto popoli, partiti, governi e Stati, strumentalmente contrapposti in due blocchi, Est-Ovest, apparentemente “nemici”, ma in realtà strategicamente univoci nello sfruttamento e sovvertimento dei popoli europei e nella distruzione di ogni forma di Stato-Nazione. Ma questa divisione, oltretutto, non era che una tappa transitoria, di un percorso che dovrà inevitabilmente condurre a quella Repubblica Universale, quell’ordine planetario, cosmopolita e globalizzato, auspicato dal mondialismo.
Ed è così che anche la seconda metà del XX secolo, fino ai giorni nostri, può essere considerato una specie di “terzo atto bellico” nel quale viene attuato un altro tipo di guerra “non convenzionale”, ma non per questo meno devastante: quella del lavaggio dei cervelli attraverso l’enorme importanza e diffusione dei mass media, la globalizzazione delle economie e delle culture e conseguente dissoluzione di ogni specifica diversità, sottomissione delle economie e degli Stati all’Alta finanza cosmopolita, diffusione forzata della società multirazziale.
La ricerca storiografica dell’autore, precisa e documentata, arricchita di foto e tabelle riassuntive, è sicuramente di un livello di gran lunga superiore a quello normalmente praticato dalla storiografia “politicamente corretta”.
L’autore infatti, senza scantonare nel complottismo non dimostrato, si attiene ai fatti, individua e ricerca le motivazioni e gli interessi che li hanno determinati e come li hanno determinati, espone i substrati culturali e ideologici che gli stanno alla base, descrive la genesi e lo sviluppo degli avvenimenti storici presi in esame, individua e ricollega i nomi dei personaggi principali che hanno occupato cariche, svolto ruoli storici, sociali e culturali particolari, manipolato in qualche modo “forze” e poteri e finisce quindi per completare e sintetizzare un quadro storico ben più esaustivo di quello solitamente realizzato da storici e giornalisti storici che, spesso per viltà e opportunismo, fingono di non vedere tutto quello che si svolge dietro le quinte.
Certamente la storiografia non può essere fatta soltanto con il ricollegare fatti e circostanze che in definitiva sembrano condurre ad un preciso fine e quindi, da questi dati, così riassunti e raccolti, trarne dei sillogismi categorici e assoluti, e neppure soltanto con l’elencare nomi e cognomi che hanno svolto un particolare ruolo a questo fine connaturato, ma la storiografia neppure può essere fatta ignorando tutti questi aspetti, in molti casi nascosti e sottili, delle vicende umane.
Nella Storia, infatti, intervengono molti elementi e interessi di eterogenea natura, ma è anche vero che la Storia “viaggia” sulle gambe degli uomini i quali “complottano”, perseguono scopi, “agiscono”, creano fatti e circostanze e queste azioni che provocano effetti, cause e concause che si sommano tra loro, lasciano tracce più o meno nascoste nelle cronache storiche.
“La fine dell’Europa – Il ruolo dell’ebraismo”, questa monumentale opera realizzata dall’autore rappresenta quindi una fondamentale ed indispensabile integrazione alla Storiografia contemporanea.
La concretezza degli argomenti e la ricchezza dei dati, fornita dall’autore, ci consente di accennare ad una importante e decisiva osservazione sulla vera portata della Geopolitica nei tempi attuali.
La geopolitica, infatti, questo “motore” della Storia che mostra come, in definitiva, Stati e Nazioni si dividono, si scontrano e si compattano dietro i grandi interessi geopolitici, gli unici che possono garantire nel tempo lo sviluppo futuro e la sicurezza militare ai poli antagonisti della terra: le realtà continentali e quelle talassocratiche, un “motore” che ha da sempre guidato o in qualche modo sostanziato strategie ed eventi bellici, mostra di essere oggi giorno posto in secondo piano, o comunque non essere più così “strategicamente decisivo” come in passato.
Saremmo quindi in presenza di un sia pur parziale scadimento di importanza della geopolitica nella realtà storica, probabilmente a causa dell’enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione e di trasporto, della globalizzazione delle economie e soprattutto dell’enorme potere raggiunto da Lobby e Consorterie trans e over nazionali, capaci di dettare strategie di natura mondialista alle singole Nazioni, strategie spesso contrarie ai loro reali interessi anche di natura geopolitica.
Non può infine che trovarci pienamente d’accordo la premessa dell’autore, una premessa alla quale anche noi, nel nostro impegno di ricercatori storici, eravamo da tempo analogamente arrivati. Afferma infatti l’autore che il suo impegno, il suo sforzo che lo ha portato a pubblicare quest’opera, non è finalizzato, per incidere nella “realtà”, ad una eventuale attività politica partitica o altro che, stante come stanno le cose nei tempi attuali e relativa demo repressione, sarebbe insulsa e foriera di intima corruzione e neppure, ovviamente, per auspicare una rivolta “violenta”, seppur virile, che avrebbe come unica conseguenza quella di veder sostituito e riprodotto, più forte di prima, quanto si credeva annientato determinando così, come unica conseguenza, l’abbattersi di una spietata mannaia da parte del Sistema su ogni aspetto culturale e gruppo politico non conforme (se non, aggiungiamo noi, lo strumentalizzare, attraverso l’infiltrazione, certe azioni per fini a vantaggio proprio del Sistema stesso).
Resta allora, conclude l’autore, l’ultima possibilità, quella “culturale”: «riportare alla luce informazioni celate da decenni, raccogliere documentazione, rettificare interpretazioni filosofiche, storiche e politiche, ordinare un corpus documentale e “interpretativo” del passato e quindi utile per il futuro».
Con qualcosa di più di una speranza, che il “seme”, in futuro, possa attecchire.

Maurizio Barozzi     

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la NOTA di Giorgio Vitali

L’articolo che qui riproduciamo è molto interessante in quanto costituisce una denuncia della realtà nella quale siamo immersi.
La cosa ci permette di sostenere un principio: nella STORIA UMANA agiscono FORZE che molto poco hanno a che fare con gli aspetti strettamente MECCANICI ed AUTOMATICI dei rapporti di forza fra Stati, Nazioni, gruppi o singoli.
Certamente queste “forze” supportate ora anche dalla “tecnologia” (bellica e comunicazionale), agiscono tanto frontalmente quanto dietro le quinte. Ma non sono le sole, perchè gruppi sociali o razziali, mossi da specifiche motivazioni, ricollegabili a “Volontà di Potenza” (vedi: J. Prassard: “Dominio”, Capire Ediz. ; F. Saba Sardi: “Dominio”, Bevivino ed.; Jean-Pierre Fichou: “Yankee. Cultura e Valori negli USA”, Ulisse edizioni; Walden Bello: “Domination, La fine di un’Era”, Nuovi Mondi Media; Fabio Zanello: “American Mullah, Voci del Fondamentalismo cristiano americano”, Coniglio Editore; Pascal Lorot: “Storia della Geopolitica”, Asterios ed. 1997, Cesari-Di Lauro: “Problemi d’Oriente ed Imperialismo Americano”, Bocca, 1939). Si muovono all’unisono con i mezzi di cui vengono in possesso.
Certamente, l’ignoranza e l’ingenuità dei cittadini del mondo contribuisce in modo determinante al progetto di CONQUISTA. L’ignoranza, che è il substrato della vita di relazione italiana, insieme all'”ingenuità” che di quest’ignoranza è il naturale corollario, permette la manipolazione delle coscienze attraverso Miti incapacitanti, basati su buonismo e sensi di colpa del tutto illusori nonchè falsi, indotti nelle coscienze delle persone attraverso l’utilizzo spietato di mezzi di comunicazione di Massa quali Cinema, Televisone, Radio e quant’altro.
E tuttavia, è bene prendere atto che qualsiasi PROCESSO di CONQUISTA non può che attenersi ai CARDINI della Geopolitica. [Questi cardini sono: 1) Il possesso dei luoghi dell’Autorità formale ed istituzionale. Ad esempio, il posizionamento di “esperti” economisti nei luoghi chiave ( vedi Protocollo VIII), 2) L’applicazione della scienza della Geopolitica].
Così come qualsiasi “tecnologia avveniristica” in campo edilizio non potrebbe mai ignorare i princìpi sanciti, su questo argomento, già svariati millenni orsono. Tali princìpi confliggono con le interpretazioni ufficiali dei fatti dell’11 settembre, talchè una buonissima fetta dell’Umanità, assieme al 70% degli amerikani, NON crede nelle versioni ufficiali sull’argomento, INFICIANDO con ciò tutte le altre “credenze” a quelle “autorità politico-religiose” correlate, con un presupposto essenziale: TUTTO IL SISTEMA STA CROLLANDO SOTTO I “LORO” OCCHI!
Le LEGGI DELLA GEOPOLITICA impongono che le Forze Organizzate si strutturino per la CONQUISTA di posizioni di potere nei Paesi Egemoni. Se, come documenta Gianantonio Valli, la conquista dell’Impero Russo era propedeutica alla conquista del mondo da parte del mito “egualitario” contenuto nel messaggio messianico marxista o pseudo tale, questa conquista è finita male proprio ad opera, da una parte, della «botta determinante» data alla “potenza” naturale dell’URSS, (basata essenzialmente sulla “demografia”), da parte delle truppe europee coalizzate durante il secondo conflitto, che ha provocato la “scomparsa” di circa 40 milioni di persone tra Russia, Ucraina e paesi limitrofi, e dalla cocente sconfitta ad opera del popolo afghano, sostenuto in quel caso dal’Occidente, quello stesso popolo che oggi sta sconfiggendo gli amerikani e la coalizione che costoro hanno organizzato «per portare pace e democrazia in Loco».
Il fatto che gli ultranoti trotzkisti amerikani si siano mimetizzati in Theocons non cambia il significato del loro agire. Si tratta di ebrei che perseguono, sia sotto la forma di “rivoluzionari” che di “ultraconservatori” lo stesso scopo: il dominio mondialista. E per poterlo fare hanno avuto bisogno di impossessarsi delle “leve del potere” in USA, seguendo le regole fisse della geostrategia militare, energetica, agricolo-alimentare, così come, duemila anni orsono, personaggi facilmente identificabili si sono impossessati del POTERE dei Consoli; trasformando l’Impero Romano per fortuna nel solo Occidente, in una Teocrazia cristiana. Tuttavia, non sembra che, a distanza di pochi anni dall’impossessamento del POTERE formale, i Theocons abbiano ottenuto grandi risultati. ANZI! E qui sta il vero punto di forza dell’alternativa in atto: i popoli contro il potere, apparentemente molto forte, degli apparati di Dominio globalista. NOI siamo convinti che vinceranno i popoli, coalizzati ed armati. Una lotta che sta riprendendo i toni del secondo conflitto mondiale, quando si profetizzò la «Guerra del Sangue contro l’ Oro».

Gianantonio Valli – I complici di Dio

Esce con titolo «I complici di Dio. Genesi del Mondialismo», presso l’editrice Effepi, un’opera sterminata di Gianantonio Valli. Si tratta di un testo di oltre 4000 pagine che l’editore ha potuto pubblicare solo nel cd-rom che accompagna il volume cartaceo introduttivo di 146 pagine. Non sarebbe stato possibile altrimenti. L’Autore avverte poi che il miglior metodo per leggere la sua opera costata venti anni di lavoro è la lettura sequenziale, pagina dopo pagina, anche se un motore di ricerca integrato nel pdf consente facili ricerche. E noi ci siamo accinti nella lettura dell’opera, cioè di tutte le sue 4050 pagine del pdf, essendo appena giunti a pagina 60 del volumetto cartaceo. Intanto questa non è una recensione. Cogliendo io la specificità della scrittura digitale direttamente sulla rete, in un blog, mi propongo qui una serie di riflessioni e di spunti tratti dalla lettura di un’opera che richiederà non poco tempo e che non potrà essere ultimata a breve. Dico ciò perché non vorrei fare torti all’Autore con eventuali incomprensioni che possono essere mie soltanto ed estranee ai risultati delle sue ricerche.

Emmanuel Ratier – Misteri e Segreti del B’nai B’rith

Emmanuel Ratier ci presenta uno studio molto interessante sul “B’nai B’rith”. Su questo argomento non era stato scritto ancora nulla di cosi completo, dettagliato e nello stesso tempo ben documentato. Era infatti molto difficile poter parlare del “B’nai B’rith”, poiché riguardo a quest’associazione non si trovava nulla, di “esposto al pubblico”. Nulla, neppure alla Biblioteca Nazionale di Parigi, tranne tre modesti fascicoli del 1932. Tuttavia, secondo l’”Encyclopedia Judaica” (1970), il “B’nai B’rith” costituisce “la più antica e la più numerosa organizzazione giudaica di mutuo soccorso, organizzata in logge e in capitoli in 45 nazioni. Il numero totale dei membri è di circa 500.000”.
Strano che un’associazione così importante, fondata negli USA nel 1843, non abbia mai pubblicato nulla su di se. Se si consulta la collezione delle riviste, che per legge devono essere esposte in quattro esemplari alla Biblioteca Nazionale ogni volta che appaiono, si constata che il “B’nai B’rith” non ha mai effettuato tale deposito, pur essendovi obbligato per legge. Nonostante questa precauzione, l’Autore dello studio presentato dal Ratier, ha potuto consultare una certa parte delle pubblicazioni del “B’nai B’rith” americano ed europeo. In questo articolo mi sono limitato a recensire tale libro, cui rimando il lettore per eventuali consultazioni di citazioni fatte nell’opera stessa.

Carlo Mattogno – Le Camere a Gas di Auschwitz

Davvero fresco di stampa, appena uscito dalla tipografia, questo nuova imponente opera di Carlo Mattogno, che in 658 pagine con 2510 note più Appendice fotografica critica i caposaldi della più recente e agguerrita letteratura sterminazionista legata ai nomi di Jean-Claude Pressac e Robert Jan van Pelt. Tolto Raul Hilberg, al quale Jürgen Graf e lo stesso Carlo Mattogno hanno condotto una critica decisiva, e restando su un piano alquanto più basso Jan van Pelt, tutta la restante, abbondantissima letteratura è quella che Norman G. Finkelstein definisce paccottiglia da supermercato. Il lavoro di storici come Mattogno e Graf si orienta appunto verso un confronto ed una contestazione critica dei caposaldi storici e teorici di quella che viene presentata come una verità storica acquisita, indiscussa e indiscutibile ed è addirittura sancita dal legislatore, sanzionata dall’apparato giudiziario che infligge secoli e millenni di carcere duro nelle prigioni austriache, tedesche, francesi e tutti gli altri paesi dove vigono le “leggi memoriali”, con le quali si tolgono agli storici ogni libertà di condurre le loro ricerche e si fissano i risultati e le “verità” alle quali è loro consentito di approdare.

Il “caso Williamson” ha portato l’attenzione del mondo sulla questione dell “camere a gas”. Tutti ne hanno sentito parlare. Tutti hanno gridato allo scandalo, in verità uno “scandalo” montato ad arte poche settimane dopo di ben altro e ben più grave scandalo: l’operazione “piombo fuso”, che magari si è preteso di legittimare con una massiccia iniezione mediatica di “caso Williamson”, ossia di un pio vescovo al quale in un’imboscata, forse studiata ad arte, si chiedeva cosa ne pensasse delle “camere a gas”. E lui rispondeva che non credeva fossero mai esistite per davvero. Apriti cielo! Se il pio vescovo, assolutamente fermo nella fede della tradizione cattolica, infirmata dal Concilio Vaticano II, avesse negato uno dei tanti dogmi cristiani non avrebbe suscitato tante reazioni e sarebbe passato del tutto inosservato.

L’opera di Mattogno non è stata discussa e non viene né letta né discussa dalla storiografia ufficiale che si lascia intimorire dalle sanzioni penali e dal discredito infamante che viene gettato addosso a chi appena appena avanza la benché ninima riserva critica, poniamo sul mitico numero dei “sei milioni”, ormai divenuti come un titolo per nuovi salmi e una filmistica hollywodiana a getto continuo. Addirittura il sionista Dershowitz annuncia un suo nuovo libro intitolato il secondo “sei milioni”, intendendo che i successivi sei milioni sarebbero le vittime dei nuovi genocidi avutesi durante i 60 anni di Israele, ma attribuibili non a Israele, bensi a diversi regimi che non sono condannati dall’ONU con la stessa prontezza e ritualita con cui viene condannato lo stato ebraico.

Quanto sia pericolo il tema “camere a gas” è cosa nota ad ognuno. Chi pone domande o insinua dubbi va incontro egli stesso ad ostracismi ed accuse di ogni genere. Ma perché su tutto si può discutere e sulle “camere a gas” no? Perché un Faurisson è continuamente incriminato ed altri sbattuti in galera? Perché un convegno sull’«Olocausto» ha dovuto tenersi a Teheran sotto protezione di uno Stato straniero e non avrebbe mai potuto tenersi in un paese europeo? Perché vengono sbattute le porte in faccia a quanti desiderano affrontare scientificamente e criticamente un argomento di carattere storico e relativo ad un evento che la stragrande maggioranza non ha potuto conoscere di persona e sul quale le notizie sono per sentito dire, per detto dalle autorità, per tramandato? Il nostro sistema giuridico si dice fondato sulla libertà di pensiero e di parola. Ma nessuna libertà di pensiero, di ricerca, di espressione, di insegnamento viene concessa in materia di «Olocausto». Non ripetiamo qui cose note e spiegazioni che portano a Tel Aviv ed al sionismo nonche alle lobbies ebraiche attive in ciascuno dei nostri paesi.

Consideriamo invece entrambe le possibilità connesse alla “esistenza” o “non esistenza” delle “camere a gas”, ovvero l’arma del delitto con la quale sarebbe stato consumato il reato di genocidio del popolo ebraico. Che il movimento nazista non amasse gli ebrei in quanto tale è cosa che nessuno pensa di negare. Del resto, nessuno nega la “discriminazione” e la “persecuzione” degli ebrei da parte dei nazisti: in misura non maggiore e non più grave di quella che gli odierni sionisti, costituitisi infine come stato in Israele, praticano oggi contro i palestinesi, scacciate dalle loro case, dai loro villaggi, uccisi e massacrati sotto gli occhi complici, conniventi e tolleranti diella cosiddetta comunità internazionale, ma che in realtà è la comunità delle cancellerie e dei proprietari dei mezzi di comunicazione di massa È vergognoso ed agghiacciante come si tollerino in Palestina un regime di veri e propri lager di concentramento e di veri e propri campi di sterminio. Gaza è una prigione a cielo aperto, un enorme campo di concentramento con dentro un milione e mezzo di persone, sulle quali si sparano armi di ogni genere e nel quali i superstiti vengono lasciati morire di fame e di malattie oltre che ridotti a livelli primitivi di esistenza. Per un marziano che giungesse sulla terra non sarebbe difficile una valutazione comparativa fra l’orrore di oggi, accertabile, e quello degli anni 1943-45 sottratto alla libera ricerca storica.

A pensarci bene, se io fossi un ebreo antisionista o non sionista, mi augurerei che venissero riconosciute come fondate e scientificamente dimostrate le tesi di Mattogno e di altri storici spregiativamente detti “negazionisti”. Ma negazionisti di che o di cosa? Il grande e minuto pubblico non è abituato a distinzioni che sono invece essenziali per capire di cosa si tratta e come lo stesso grande pubblico venga menato per il naso e di come si abusi della credulità e delle buona fede della gente semplice, lasciando perdere quanti possano avere un interesse e un tornaconto anche remoto in tutta questa sporca faccenda. I termine “sionista” ed “ebreo” non sono coincidenti ed intercambiabili, anche se certamente molti “ebrei” sono diventati con il tempo “sionisti». Molti ma non tutti! Rinvio qui ad altra recensione di libro: a Rabkin, dove in una frasetta introduttiva si dice addirittura che la Shoah sarebbe «una tragedia che chiama gli ebrei a pentirsi dei propri peccati, soprattutto dell’appoggio al sionismo che, per alcuni rabbini, avrebbe direttamente causato la Shoah» (p. 13)

Bernarde Lazare – L’Antisemitismo Storia e Cause

Per scrivere una storia completa dell’antisemitismo, senza trascurare nessuna delle manifestazioni di questo sentimento e seguendone le varie fasi e i mutamenti, è necessario incominciare la storia di Israele dal momento della sua dispersione, o per meglio dire, dal tempo della sua diffusione fuori dal territorio della Palestina.
In tutti i luoghi dove gli Ebrei si sono stabiliti, cessando di costituire una nazione pronta a difendere la propria libertà e la propria indipendenza, si è sviluppato l’antisemitismo, o meglio, l’antigiudaismo, perché antisemitismo è un termine improprio che ha trovato la sua ragione di essere soltanto ai nostri tempi, quando si è voluto allargare questa lotta tra l’Ebreo e i popoli cristiani e darle una filosofia e una ragione più metafisiche che materiali.

Se questa ostilità, che è addirittura una sorta di ripugnanza, si fosse manifestata nei confronti degli Ebrei soltanto in un periodo e in un solo paese, sarebbe facile scoprire le cause specifiche di quell’avversione, invece, la razza ebraica è stata oggetto dell’odio di tutti i popoli in mezzo ai quali si è stabilita. Si deve pertanto dedurre che le cause generali dell’antisemitismo siano sempre state insite nello stesso Israele e non nei popoli che lo combatterono. Infatti i nemici degli Ebrei appartenevano alle razze più disparate, vivevano in terre assai lontane tra loro, non avevano né gli stessi costumi né le stesse tradizioni, erano guidati da principi diversi che facevano sì che diversi fossero anche i loro giudizi; ne consegue che le cause generali dell’antisemitismo sono sempre state insite in Israele stesso e non in coloro che lo combattevano.

Con questo non vogliamo affatto affermare che i persecutori degli Israeliti ebbero sempre il diritto dalla loro parte, né che non si abbandonarono agli eccessi propri dell’odio violento, semplicemente vogliamo dire che in linea di massima e almeno in parte, gli Ebrei stessi furono causa-dei loro mali.
Davanti all’unanimità delle manifestazioni di antisemitismo è difficile ammettere, come troppo spesso si è inclini a fare, che furono dovute semplicemente a una guerra di religione, e non bisognerebbe vedere nelle lotte contro gli Ebrei la lotta del politeismo contro il monoteismo, e la lotta della Trinità contro Yavhé. I popoli politeisti, così come i popoli cristiani, hanno combattuto l’Ebreo, non la dottrina del Dio unico.

Quali virtù o quali vizi hanno meritato all’Ebreo questa universale animosità? Perché fu, di volta in volta ed in ugual misura, maltrattato ed odiato dagli Alessandrini e dai Romani, dai Persiani e dagli Arabi, dai Turchi e dalle nazioni cristiane? Perché ovunque, e fino ai giorni nostri, l’Ebreo è stato un essere scontroso, insociabile. Perché insociabile? Perché esclusivo, di un esclusivismo politico e religioso insieme, o per meglio dire, dovuto al suo culto politico-religioso, alla sua legge.

Se passiamo in rassegna i popoli conquistati nel corso della storia, vediamo che si sottomettevano alle leggi dei vincitori pur continuando a mantenere la propria fede e le proprie credenze; potevano farlo senza difficoltà perché presso di loro le dottrine religiose provenienti dagli dei e le leggi civili emanate dai legislatori, erano nettamente separate e le leggi civili potevano essere modificate a seconda delle circostanze senza che i riformatori incorressero nell’anatema o nell’esecrazione teologica. Quello che l’uomo aveva fatto, l’uomo poteva disfare. I vinti si ribellavano contro i conquistatori per patriottismo, mossi unicamente dal desiderio di recuperare la loro terra e di riavere la libertà; al di fuori di queste rivolte nazionali, raramente chiesero di non essere sottomessi alle leggi generali e quando protestarono lo fecero contro disposizioni particolari, che li mettevano in uno stato di inferiorità nei confronti dei dominatori. Nella storia delle conquiste romane, vediamo i popoli conquistati chinarsi davanti a Roma quando Roma impone loro la stessa legislazione che governa l’impero.

Per il popolo ebreo, il caso era molto diverso: come già fece notare Spinoza (1) “le leggi rivelate da Dio a Mosè (2) non sono state altro che le leggi del governo particolare degli Ebrei“. Mosè, profeta e legislatore, conferì alle sue disposizioni giudiziarie e di governo lo stesso valore che avevano i suoi precetti religiosi, cioè la rivelazione. Jahvè non solo aveva detto agli Ebrei: “Adorerete un Dio solo e non adorerete idoli“, aveva anche prescritto regole di igiene e di morale; non solo aveva assegnato loro con precisione il territorio dove i sacrifici dovevano aver luogo, ma aveva stabilito anche le modalità con le quali questo territorio doveva essere amministrato. Ognuna delle leggi che aveva dato, agraria: civile, di profilassi, teologica o morale, godeva della medesima autorità e riceveva la medesima sanzione, cosicché questi diversi codici formavano un tutto unico, un fascio rigoroso dal quale nulla poteva essere sottratto senza compiere sacrilegio.

In realtà, l’Ebreo viveva sotto la dominazione di un signore, Jahvè, che nessuno poteva vincere o combattere, e non conosceva altro che la Legge , cioè l’insieme delle regole e dei precetti che un giorno Jahvè aveva voluto dare a Mosè, legge divina ed eccellente, adatta a condurre alle eterne gioie quelli che la avessero seguita, legge perfetta, che il solo popolo ebreo aveva ricevuto.
Con un tale concetto della sua Torah, l’Ebreo non poteva accettare le leggi dei popoli stranieri, per lo meno non poteva pensare di vedersele applicare; non poteva abbandonare le leggi divine, eterne, buone e giuste per seguire le leggi umane fatalmente viziate da caducità e da imperfezione. Se avesse potuto dividere questa Torah! Se avesse potuto mettere da una parte gli ordinamenti civili e dall’altra gli ordinamenti religiosi! Ma questi ordinamenti non avevano forse tutti un carattere sacro, e la buona sorte della nazione ebraica non dipendeva forse dalla loro totale osservanza?

Queste leggi civili che si addicevano a una nazione e non a delle comunità, gli Ebrei non volevano abbandonarle quando entravano tra gli altri popoli perché, sebbene fuori da Gerusalemme e dal regno di Israele queste leggi non avessero più di ragione di essere, rimanevano pur sempre obblighi religiosi per tutti gli Ebrei che si erano impegnati a rispettarle con un antico patto con la Divinità.

Così, ovunque gli Ebrei stabilirono della colonie, ovunque furono trasportati, chiesero non solo che si permettesse loro di praticare la propria religione, ma anche di non essere sottoposti agli usi dei popoli in mezzo ai quali dovevano vivere e di potersi governare secondo le proprie leggi. A Roma, Alessandria, Antiochia, in Cirenaica, poterono agire liberamente. Di sabato non erano chiamati davanti ai tribunali (3), si permise loro persino di avere propri tribunali speciali e di non essere giudicati secondo le leggi dell’impero: quando le distribuzioni di grano cadevano di sabato, si teneva la loro parte per il giorno seguente (4) potevano essere decurioni, ma esentati dalle pratiche contrarie alla loro religione (5); si amministravano da soli, come ad Alessandria, con propri capi, il proprio senato, l’etnarca, senza essere sottomessi all’autorità municipale. Dappertutto, volevano restare Ebrei e dappertutto ottenevano privilegi che permettevano loro di fondare uno Stato nello Stato. Grazie a questi privilegi, a queste esenzioni, a questi sgravi di imposta, si trovavano rapidamente in una situazione migliore di quella dei cittadini delle città dove vivevano; avevano maggiore facilità a trafficare e ad arricchirsi, così provocarono gelosie e generarono odio.

L’attaccamento di Israele alla sua legge fu dunque una delle cause principali della sua condanna, sia quando da questa legge traeva benefici e vantaggi suscettibili di provocare invidia, sia quando si gloriava dell’eccellenza della Torah per considerarsi al di sopra ed estraneo agli altri popoli.

Se gli Israeliti si fossero attenuti al puro mosaismo non vi è dubbio che, a un certo momento della loro storia, avrebbero potuto modificare questo mosaismo in modo tale da lasciar sussistere soltanto i precetti religiosi o metafisici; può anche darsi che, se avessero avuto come libro sacro soltanto la Bibbia , si sarebbero fusi nella Chiesa nascente che trovò i suoi primi adepti nei Sadducei, negli Esseni e nei proseliti ebrei. Un altro fattore impedì la fusione e mantenne gli Ebrei come popolo isolato fra gli altri popoli: l’elaborazione del Talmùd, il dominio e l’autorità dei dottori che insegnarono una presunta tradizione, ma questa azione dei dottori, sulla quale torneremo, fece degli Ebrei quegli esseri scontrosi, poco socievoli e orgogliosi di cui Spinoza, che li conosceva, ha potuto dire: “Non c’è da stupirsi che dopo essere stati dispersi per tanti anni abbiano continuato ad esistere senza governo, dal momento che si sono separati da tutte le altre nazioni, a tal punto che hanno fatto convergere su di sé l’odio di tutti i popoli, non solo a causa dei riti esteriori, contrari ai riti delle altre nazioni, ma anche per il segno della circoncisione” (6).

I dottori dicevano: lo scopo dell’uomo sulla terra sono la conoscenza e la pratica della Legge, e non si può pienamente praticare la legge se non sottraendosi alle leggi che non sono la vera Legge. L’Ebreo che seguiva questi precetti si isolava dal resto degli uomini, si trincerava dietro la siepe che intorno alla Torah avevano elevato dapprima Esdra e i primi scribi (7) e poi i Farisei e i Talmudisti eredi di Esdra, deformatori del mosaismo originario e nemici dei profeti. L’Ebreo non si isolò soltanto rifiutando di sottomettersi agli usi che creavano dei legami tra gli abitanti dei paesi in cui si era stabilito, ma anche respingendo ogni rapporto con gli abitanti stessi: all’insociabilità aggiunse l’esclusivismo.

Senza la Legge , senza Israele per praticarla, il mondo non esisterebbe, Dio lo farebbe ritornare nel nulla e il mondo conoscerà la felicità soltanto dopo essersi sottomesso all’impero universale di questa legge, cioè all’impero degli Ebrei. Pertanto, il popolo ebreo è il popolo scelto da Dio come depositario delle sue volontà e dei suoi desideri; è il solo popolo con cui la divinità ha stretto un patto, è l’eletto del Signore. Quando il serpente tentò Eva, dice il Talmùd, la corruppe con il suo veleno. Israele ricevendo la rivelazione del Sinai si liberò dal male; le altre nazioni non poterono guarirne. Così, anche se ciascuna ha il proprio angelo custode e le proprie stelle protettrici, solo Israele è posto sotto l’occhio stesso di Gèova ed è il figlio prediletto dall’Eterno, il solo che ha diritto al suo amore, alla sua benevolenza, alla sua speciale protezione; gli altri uomini sono posti al di sotto degli Ebrei e solo per pietà hanno diritto alla munificenza divina perché soltanto le anime degli Ebrei discendono dal primo uomo. I beni delegati alle nazioni in realtà appartengono a Israele e vediamo che Gesù stesso risponde alla donna greca: “Non è bene prendere il pane dei fanciulli per gettarlo ai cani” (8). Questa fede nella loro predestinazione, nell’essere gli eletti, sviluppò negli Ebrei un immenso orgoglio e quando alle ragioni teologiche si aggiunsero ragioni di patriottismo essi giunsero a considerare i non-Ebrei con disprezzo e spesso con odio.

Quando la nazionalità, ebraica si trovò in pericolo, sotto Giovanni Ircano, si videro i Farisei dichiarare impuro il suolo dei popoli stranieri, impure le relazioni tra Ebrei e Greci. Più tardi, gli Scamaiti in un sinodo proposero di stabilire una separazione totale tra Israeliti e Pagani ed elaborarono una raccolta di proibizioni chiamata Le diciotto cose che finì per predominare nonostante l’opposizione dei discepoli di Hillel. Così nelle esortazioni di Antioco Sidete, si incomincia a parlare dell’insociabilità ebraica, vale a dire “del partito preso di vivere esclusivamente in un ambiente ebraico escludendo qualsiasi relazione con gli idolatri, e dell’ardente desiderio di rendere queste relazioni sempre più difficili, se non impossibili” (9) e davanti ad Antioco Epifane vediamo il gran sacerdote Menelao accusare la legge di “insegnare l’odio verso il genere umano, proibire di sedere alla mensa degli stranieri e di mostrare loro benevolenza“.

Se questi precetti avessero perso la loro autorità quando scomparvero le ragioni che li avevano motivati e in un certo qual modo giustificati, il male sarebbe stato limitato; ma li vediamo ricomparire nel Talmùd e l’autorità dei Dottori li ha riconfermati.

(…)

*Bernarde Lazare nacque a Nimes nel 1865 in una famiglia di ebrei stabilitisi da secoli nel sud della Francia e ancora giovane andò a Parigi a completare gli studi. Nel 1884 pubblicò il libro “L’Antisemitisme, son histoire er ses causes” in risposta ai libri di Edouard Drumont.

Arthur Koestler – La Tredicesima Tribù

La tredicesima tribù racconta molto dell’autore che senza esitazioni di sorta procede all’azione demolitrice del mito ebraico sull’origine e omogeneità della sua stirpe, per fornirne una nuova mappatura genetica. Niente di più semplice e leggero per chi si sente, in fondo, figlio di nessuno.
La derivazione semitica rappresenta, secondo l’opinione dell’autore, confortata da numerose testimonianze e dall’ausilio di colleghi saggisti, una piccola percentuale della comunità ebraica attualmente vivente. Come dire, delle dodici tribù originarie poco ne è rimasto, meno che mai in Israele. E allora da dove viene la grande maggioranza del popolo di Abramo? Sentite le parole dell’autore. “… ma ciò non toglie che la grande maggioranza degli ebrei sopravvissuti nel mondo provengano dall’Europa orientale e siano perciò forse di origine prevalentemente cazara. In questo caso, significherebbe che i loro antenati non provengano dal Giordano ma dal Volga, non da Canaan ma dal Caucaso, ritenuto un tempo la culla della razza ariana; dal punto di vista genetico sarebbero perciò più strettamente legate alle tribù degli unni, degli uiguri e dei magiari che al seme di Abramo, Isacco e Giacobbe.”. Boom.
Chi sono allora questi cazari? L’autore affonda nelle origini di questo popolo semisconosciuto e ci porta intorno alla metà del quinto secolo d.C. dove troviamo la prima traccia della loro presenza. Le tracce che Koestler si ritrova a commentare sono testimonianze ostili redatte dalle ambascerie dei popoli avversari o subalterni ai nostri cazari. Le tribù che componevano questo regno al Nord del Caucaso, tra il Mar Nero e il Mar Caspio, erano tribù di grandi cavalieri, guerrieri in grado di razziare le terre circostanti, imporre ingenti tributi ai popoli sconfitti, e di mettere a rischio l’equilibrio delle grandi potenze, in primo luogo quella bizantina, e successivamente quella del Califfo. E proprio quando l’ascesa dei discendenti di Maometto si fece sempre più pericolosa l’impero cazaro (ormai impero per le relazioni istituite con i popoli subalterni) svolse il ruolo di stato cuscinetto, in grado di arrestare a più riprese l’avanzata delle armate del Califfo. C’è chi ammette, come lo storico sovietico Artamonov (autore di I Cazari) e lo storico americano Dunlop, che senza questo contributo Bisanzio sarebbe caduta almeno cinquecento anni prima sotto le sciabole musulmane.

Renè Guènon – Scritti sull’esoterismo islamico

Nell’ultima parte della sua vita René Guénon si ritirò al Cairo, come convertito all’Islam. Quanto egli ha scritto su questa tradizione assume perciò nella sua opera un significato peculiare. E tanto più quanto ha scritto sul Sufismo, che per Guénon non è certo una setta accanto ad altre, ma il cuore esoterico dell’Islam. Del tutto opposta nel modo di manifestarsi, ma orientata verso le stesse verità iniziatiche, la tradizione cinese, di cui qui si esamina la polarità Taoismo-Confucianesimo. Un importante testo intitolato Creazione e manifestazione tocca poi un punto estremamente delicato e complesso nella dottrina delle Religioni del Libro (Giudaismo, Cristianesimo, Islamismo): in che senso l’idea di creazione appartiene in modo specifico al loro ambito, e qual è il significato della «creazione dal nulla»? Densi e trasparenti, questi testi, redatti fra gli anni Trenta e la morte dell’autore ma raccolti in volume solo nel 1973, ci permettono di accedere ad alcune elaborazioni fra le meno conosciute e le più significative di Guénon.

Renè Guènon – Il Demiurgo e altri saggi

I saggi qui riuniti coprono un arco temporale che abbraccia l’intero periodo creativo di Guénon, dal 1909 al 1950. Sarebbe però vano aspettarsi di trovarvi le tracce di una graduale evoluzione del suo pensiero: come Atena nasce già a- dulta e ben armata dalla testa di Zeus, così la visione metafisica di Guénon appare già compiuta fin dal primo saggio sul Demiurgo – pubblicato a ventitré anni –, in cui egli affronta il mille- nario quesito «unde malum?», rispondendo con la disinvoltura e la paziente meticolosità di chi svolga una dimostrazione di ciò che dovrebbe risultare a tutti ovvio, o desumibile da alcune nozioni universali di immediata evidenza, quali l’infinito, l’essere e il non-essere, il manifestato e il non-manifestato, l’unità e la molteplicità. E fedele a quella visione, incentrata sugli assiomi che nelle civiltà tradizionali definiscono l’ordine del mondo e il percorso iniziatico di realizzazione spirituale, Guénon nei quarant’anni successivi si adopera instancabilmente a rettificare le confusioni di pensiero e le aberrazioni terminologiche che vede diffondersi nel mondo moderno, chiarendo i rapporti fra monoteismo e angelologia, il significato delle idee platoniche, la distinzione fra spirito e intelletto, le valenze metafisiche della produzione dei numeri e della notazione matematica, irridendo la concezio- ne profana delle arti e delle scienze o i tentativi di mettere sullo stesso piano pensiero individuale e sapere tradizionale – sempre con il geometrico rigore che lo caratterizza fin dall’inizio.

Renè Guènon – Forme Tradizionali e Cicli Cosmici

Gli articoli raccolti in questo volume rappresentano l’aspetto forse più “originale” – e per molti lettori anche il più sconcertante – dell’opera di René Guénon. Si sarebbe potuto scegliere un titolo come “Frammenti di una storia sconosciuta”, ma d’una storia che ingloba protostoria e preistoria, poiché inizia la Tradizione primordiale contemporanea agli albori della presente umanità. Si tratta di frammenti destinati a rimanere tali, nel senso che sarebbe stato certamente impossibile, per lo stesso Guénon, esporre questa storia senza soluzione di continuità e senza lacune, poiché le fonti tradizionali che gli hanno fornito i vari elementi erano verosimilmente molteplici. Anche da un altro punto di vista questi possono definirsi “frammenti”: nella raccolta,  infatti, si sono potuti riunire soltanto i testi che ancora non sono stati incorporati in volumi anteriori, sia dallo stesso Guénon, sia da coloro i quali hanno provveduto alla compilazione delle raccolte postume già pubblicate.

Dei testi contenuti in quest’opera, soprattutto quelli riguardanti la Regione Iperborea e l’Atlantide costituiranno per alcuni la pietra dello scandalo, poiché quanto viene detto su tali argomenti si trova in netto contrasto con le idee generalmente prevalenti nel mondo scientifico occidentale. Più numerosi sarebbero forse i punti di contatto con i risultati della ricerca scientifica sovietica; ma  la conoscenza che abbiamo di essi è troppo imperfetta, per poterne trarre delle utili conclusioni. D’altra parte, dato il carattere chiaramente  preistorico delle epoche alle quali ci riportano le tradizioni iperborea ed atlantidea, non si potrebbe ricavarne che semplici indizi o fasci d’indizi, per lo più nei domini dell’etnografia, della linguistica comparata e delle religioni.

Lo studio dei cicli cosmici, con cui s’inizia la raccolta, data la sua caratteristica di preambolo, non presenta particolari difficoltà, essendo generalmente nota in Occidente l’esistenza di una dottrina dei cicli, nella tradizione indù. Si sa ora dell’esistenza di teorie cicliche anche nella Cabala ebraica e nell’esoterismo islamico. Le conoscenze cosmologiche tradizionali racchiuse in questi quattro  libri costituiscono una summa che senza dubbio non ha uguali in nessuna lingua.

Renè Guènon – Esoterismo Di Dante

Senza alcuna pretesa di sistematicità, e interessato più a sollevare questioni che a offrire risposte, Guénon volle in questo breve libro far risuonare alcune corde della «dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani». Dopo aver esaminato le analogie e corrispondenze con gli ordini cavallereschi, il Rosicrucianesimo, l’ermetismo e l’Islam suggerite in passato da studiosi e occultisti, Guénon, fedele al principio secondo cui le somiglianze in realtà dimostrano soltanto «l’unità dottrinale comune a tutte le tradizioni», procede a una geometrica esposizione del simbolismo insito in alcuni temi cruciali della Commedia: i tre mondi, i numeri, il tempo. Ecco allora che l’Inferno appare come ricapitolazione degli stati che precedono logicamente lo stato umano e manifestazione delle possibilità di ordine inferiore che l’essere porta ancora in sé, il Purgatorio come prolungamento dello stato umano e il Paradiso come ascesa agli stati superiori dell’essere, mentre il «mezzo del cammin di nostra vita» diventa occasione per una magistrale spiegazione del «centro» secondo un simbolismo che si riflette con perfetta simmetria nel tempo e nello spazio, nella dottrina dei cicli cosmici basata sulla precessione degli equinozi e nella struttura tripartita dell’universo dantesco. Si tratta, ogni volta, di «fornire un punto di partenza alla riflessione» – ma quella riflessione, che è l’opera intera di Guénon, sarebbe proseguita ancora per molti anni con inesorabile lucidità, nell’intento di «far sentire ai nostri contemporanei la natura angusta e l’insufficienza delle loro concezioni abituali». L’esoterismo di Dante è stato pubblicato per la prima volta nel 1925.

Guido De Giorgio – AA.VV Speciale Guido De Giorgio

SPECIALE GUIDO DE GIORGIO:

Copertina: il Pa Kua di De Giorgio

Guido De Giorgio e il ritorno allo spirito tradizionale di E. Iurato

Due lettere inedite di R. Guénon a De Giorgio

René Guénon e la cerca di Dio di G. De Giorgio

Islam di G. De Giorgio

Scuola e Religione di G. De Giorgio

La donna non è una cosa di G. De Giorgio

L’eroe del Gimma: Havis de’ Giorgio di E. Musso

Poesia per Havis di G. De Giorgio

La dottrina imperiale in De Giorgio di A. Scali

Incontri con Corallo Reginelli di A. Calò

Guido De Giorgio – Prospettive della Tradizione

La Tradizione Romana, nella sua integralità vivente, rappresenta la centralità mediatrice tra Oriente e Occidente, la sintesi suprema di due tradizioni e di due atteggiamenti che si presentano polarmente antagonisti e inconciliabili. Di  qui la nota frase di Kipling che amaramente ammette l’invalicabilità della barriera tra Est e Ovest, l’opposizione di due mentalità divergenti, di due coscienze di vita, culmini distanti tra cui si agita la zona graduata degli eclettismi e delle contaminazioni.

In realtà Oriente e Occidente presentano due tipi tradizionali estremamente riconoscibili per alcuni caratteri stabili fissi e costanti: nell’uno domina l’atteggiamento statico, ascetico, l’immobilità plastica, l’irrigidimento esterno, lo sforzo centripeto unitario che attenua e annulla la vibrazione periferica per fissare una specie di tipicità interiore valorizzatrice di sviluppi spirituali tanto più enormi e profondi quanto più l’apparenza esterna si chiude non in uno schema plastico, come avvenne nell’Ellade, ma in una serie espressiva determinata da un canone metafisico di trascendenza. Nell’altro invece, cioè in Occidente, prevale il tono plastico, il ritmo espressivo polimorfo che segue, sviluppa e accentua la diffusione interiore, centrifuga, creativa nell’esteriorità delle forme di cui ognuna coglie la labilità tematica della vita in una flessione indefinita d’individualità divergenti aventi ciascuna la propria legge e l’autonomia del moto costitutivo.

Se si volesse esprimere questa opposizione in una formula lata che, pur distanziando i due tipi ne fissasse le determinazioni più appariscenti, si potrebbe dire che l’Oriente va dal mondo a Dio mentre l’Occidente si effonde da Dio al mondo così che ciò che nell’uno è centripeto, assoluto e unitario nel secondo è centrifugo, relativo e pluralistico. Questo schema netto, brutale e reciso, polarizzando le due tradizioni e le due coscienze di vita, servirà a comprendere meglio l’essenza, la funzione e i caratteri della Tradizione Romana che rappresenta la sintesi suprema dell’Oriente e dell’Occidente in una forma nuova stabile e metafisicamente assoluta, che è appunto il Fascismo Sacro, cioè il potenziamento di tutte le possibilità umane e superumane in un ciclo vastissimo, l’universalità Romana.

Guido De Giorgio – La Tradizione Romana

La Tradizione Romana è molto di più di quel che il titolo non indichi. Per prima cosa non è un libro di storia, come comunemente s’intende; si tratta invece, secondo le parole del suo autore, di “una introduzione alla dottrina della Tradizione Romana”, vale a dire della Tradizione universale. Roma, infatti, incarna il luogo fisico e metafisico dell’incontro delle maggiori correnti spirituali antiche: il paganesimo dell’Occidente e il cristianesimo dell’Oriente. Il saggio di Guido de Giorgio, quindi, dopo la descrizione del “ciclo divino”, dopo l’illustrazione dello “spirito sacro della romanità”, si presenta nel suo originale aspetto propositivo: l’esposizione delle “linee generali di una società costituita secondo le norme di una Tradizione veramente tale”, basata sulla “armonia tra Contemplazione e Azione”. Attraverso una rettificazione che vada “dall’interno all’esterno”, sarà allora possibile la restaurazione dello spirito di Roma riprendendo il pensiero, l’aspirazione e l’ideale di Dante. Grazie al recupero di “simboli antichi” ciò potrà essere attuabile anche in un mondo che è apparente dominio della Scienza Positiva e del Numero. Uno di questi simboli è il Giano bifronte, immagine della Romanità intesa come “principio comune e potere unificatore di due tradizioni ricondotte alla loro precisa ‘distinzione'”. La riproposta di questo ‘libro segreto’ del pensiero tradizionale italiano, complesso ma di profonda suggestione, in un momento in cui si vanno riscoprendo ‘valori’ di questo tipo, vuol essere anche un’opera di chiarificazione e rettificazione, forse anche ‘costruttiva’ come riteneva cinquant’anni fa il suo stesso autore.

Guido De Giorgio – Dio e il Poeta

In Dio e il Poeta — opera postuma — De Giorgio descrive, con toni lirici e accorati,  il «precipitato» della sua incandescente esperienza interiore, prodotto di una forsennata e a tratti «eroica» autodisciplina ascetica degna di uno yogi. Libro, questo, che — come è stato giustamente osservato — testimonia, in modo commovente e originale, di «uno sforzo a vibrare all’unisono» con quell’insieme di note ineffabili di cui è costellato il sentiero di chi abdica a tutto se stesso ritrovarsi in Dio. Qui, il  lato «attivo», più squisitamente «realizzativo», di Guido De Giorgio prende il sopravvento su quello «contemplativo». Corda tesa tra l’«Io» e l’«Universo», l’anima si getta nella fornace ardente del «Mistero Divino» e ne esce come trasfigurata, come «imparadisata». Il dialogo tra «Dio» e il «Poeta» non è — infatti — che un continuo susseguirsi e accavallarsi di illuminazioni subitanee e folgoranti dal sapore cosmico-monistico come questa: «Sapere che tutto, dal verme alla stella, converge in Lui, che tutto, in noi, in profondo come in superficie, è Lui, che Lui è in tutto e tutto in Lui, che l’universalità degli esseri, delle cose, dei fatti, delle azioni apparentemente contrarie, apparentemente consone alla Sua legge, è Lui, che virtù, peccato, bene, male, è Lui, che nulla può sottrarsi alla fatalità tremenda della Sua Presenza, che dall’inizio alla fine è sempre Lui…».

Guido De Giorgio – Cio’ che mormora il vento del Gargano

Questo è lo straordinario racconto del “pellegrinaggio” che Guido De Giorgio, studioso del Vedanta, amico e  corrispondente di René Guénon e di Julius Evola, intraprese, nelle condizioni particolarmente disagevoli del dopoguerra, per visitare Padre Pio a San Giovanni Rotondo. Perché De Giorgio narra nel  modo inimitabile che è il suo, ciò che egli vede di Padre pio: il simbolo, l’icona compiuta del Dio cristiano nel quale si compiono le attese e gli elementi di Verità di ogni Tradizione, di ogni  aspirazione umana. Un simbolo concreto che non conosce tregua né compromessi. (1999), pp. 40, illustrazioni.

Guido De Giorgio – Aforismi e Poesie

Pensatore energico e tenace, Guido De Giorgio (1890-1957) ha scritto opere indimenticabili come Dio e il Poeta e La Tradizione Romana,  che già lo caratterizzano: in queste pagine ancora inedite, presentate sotto forma di Aforismi e Poesie, si rivela l’aspetto meno noto della sua scelta cristiana e cattolica. Sono pagine che  dimostrano la sua straordinaria tensione interiore e che compongono una vera e propria propedeutica della Fede nel Dio Vivente, capace di cogliere alla radice il nodo della decadenza spirituale  dell’uomo moderno, per risolverlo in un’ansia di Assoluto, che non conosce mediazioni né sentimentalismi. (1999), pp. 112.

Gruppo di UR – KRUR (1929) 3.vol. Ed Tilopa

Il Gruppo di Ur è stato un sodalizio magico attivo in Italia alla fine degli anni venti.

Direttore del gruppo fu probabilmente Julius Evola alternato da Arturo Reghini fino a quando egli ne fece parte.

Il gruppo si dichiarava indipendente da qualsiasi scuola o movimento esoterico del tempo (occultismo, massoneria, teosofia, spiritismo, ecc.) in quanto la Tradizione esiste di per sé e non è legata ad alcuna scuola. Di fatto però le principali componenti esoteriche rappresentate nel gruppo furono quella antroposofica, quella kremmerziana e quella massonico-pitagorica, oltre ad alcuni cattolici.

Secondo Evola gli obiettivi del gruppo furono essenzialmente due:

suscitare una superiore forza metafisica che potesse aiutare i singoli membri a operare magicamente;
utilizzare questa forza superiore per poter esercitare un’influenza magica sulle forze politiche del tempo.

All’interno del gruppo vi furono dei tentativi di rivitalizzare la componente esoterica-iniziatica del paganesimo tradizionale romano, da parte di Arturo Reghini, di alcuni antroposofi (come Giovanni Cesarò), di Evola stesso, e del personaggio noto con lo pseudonimo di Ekatlos. La relazione dello stesso Ekatlos, pubblicata nel 1929 sulla rivista Krur (articolo La scena e le quinte), su un tentativo da parte di alcuni componenti del gruppo di esercitare una pressione sul fascismo per imprimerne una svolta in senso pagano, rientra nel secondo degli obiettivi del gruppo così come li ha delineati Evola.

Vennero costituite diramazioni del gruppo in altre città (come si evince dagli articoli Glosse varie: costituzione di una catena magica, in Ur 1927 e Istruzioni di catena, in Ur 1928), denominate “catene”, delle quali se ne conosce l’esistenza solo per la città di Genova (dall’articolo Esperienze di catena, in Krur 1929). Sono ignoti i componenti della catena di Genova ma si sa che era costituita da cinque persone e che il suo direttore era un ex kremmerziano.

Dopo la seconda guerra mondiale un sodalizio in Italia avrebbe ripreso il messaggio del Gruppo di Ur: il Gruppo dei Dioscuri. Julius Evola fu il denominatore comune dei due Gruppi, in quanto assistette al percorso della nuova esperienza esoterica, che fu voluta da alcuni giovani a lui molto vicini, che frequentarono casa sua negli anni cinquanta e sessanta e che a lui si ispirarono. È certo che Evola fosse costantemente informato dell’iniziativa, e che ebbe visione dei quattro fascicoli di ispirazione tradizionale (I Fascicoli dei Dioscuri, pubblicati all’interno del Movimento Politico Ordine Nuovo) prima che essi fossero diffusi tra il 1969 ed il 1973. Il Gruppo dei Dioscuri operò a Roma, Napoli, Messina e Milano, e diversamente dall’esperienza del Gruppo di Ur, che si ispirò a varie Tradizioni ed esperienze, ebbe al centro del proprio intento operativo la Tradizione romana prisca. La notizia relativa ad un suo scioglimento, diffusa in particolare attraverso gli scritti di Renato Del Ponte, appare falsa e priva di qualsiasi fondamento, in quanto il Gruppo dei Dioscuri risulta per certo essere stato ininterrottamente attivo fin dal 1969, ed è tuttora costituito dai discepoli dei fondatori, così come è noto a Sandro Consolato, Direttore de “La Cittadella”, rivista del Movimento Tradizionale Romano, che ne riferisce la notizia nei suoi scritti.

Espressione del gruppo fu una rivista nella quale gli autori degli articoli si firmavano con uno pseudonimo, come consuetudine in tutte le scuole iniziatiche, perché ritenevano che non contasse la persona ma l’insegnamento, che a sua volta trascende il singolo individuo. Inoltre l’anonimato evitava che il lettore si facesse influenzare dalla identità degli autori e dalla loro appartenenza a questa o quella corrente esoterica del tempo. Direttore della rivista fu Julius Evola da solo nel 1927, insieme a Arturo Reghini e Giulio Parise nel 1928, di nuovo da solo nel 1929.

La materia trattata dalla rivista è divisa in dottrina, pratica (esposizione di metodi, indirizzi di tecnica e di disciplina), esperienze (relazioni di esperienze interiori effettivamente vissute), testi (pubblicazione di testi, di frammenti di testi o traduzioni di testi, rari o poco noti, di Oriente e d’Occidente, opportunamente chiariti, annotati o sintetizzati da chi ne abbia competenza e tutti volti ad un suscitamento, ad una organizzazione, ad un risveglio) e glosse (considerazione di problemi imposti da particolari fenomeni, per cui si sia condotti al senso di una realtà e di una possibilità trascendente gli angusti quadri in cui si è chiuso l’uomo e la sua scienza).

Nella rivista vennero pubblicati alcuni testi di interesse magico-ermetico-alchemico di varia provenienza; vi sono testi antichi (il rituale mithriaco del Gran Papiro Magico di Parigi, estratti dal de Mysteriis di Giamblico, i Versi d’oro di Pitagora, uno scongiuro magico pagano, Massime di saggezza pagana di Plotino), rinascimentali (De Pharmaco Catholico, un codice plumbeo alchemico italiano, Clavis Philosophiae Chemisticae di Gerard Dorn, La dignità dell’uomo di Pico della Mirandola), moderni (brani tratti da Il Golem e Il volto verde di Gustav Meyrink, il saggio Prospettive tratto da Musica delle fonti di Otokar Brezina) e orientali (un brano del primo capitolo del Kularnava Tantra, alcuni passi del Majjhima Nikaya, brani dallo Shri chakra sambhara, tre canti di Milarepa).

La rivista uscì con il nome di Ur negli anni 1927 (10 fascicoli, di cui due doppi) e 1928 (8 fascicoli, di cui quattro doppi), mentre nel 1929 a seguito dell’uscita dal gruppo di Reghini e Parise, la direzione fu assunta dal solo Evola che cambiò il nome della rivista in Krur (8 fascicoli, di cui due doppi). Nel dicembre 1929 uscì l’ultimo numero di Krur, sul quale Evola annunciava lo scioglimento del gruppo e il proseguimento dell’attività in una nuova rivista dal titolo La Torre, della quale uscirono 10 numeri (dal febbraio al giugno 1930) ma che fu costretta a chiudere per l’ostilità del regime e per alcuni attacchi squadristi. Alla rivista La Torre collaborarono anche alcuni ex appartenenti al Gruppo di Ur: Guido De Giorgio (con lo pseudonimo di Zero), Girolamo Comi, Domenico Rudatis, Emilio Servadio.

I fascicoli di Ur e Krur furono poi ripubblicati rilegati nel 1955-1956 in tre volumi dall’editore Bocca di Roma sotto il titolo di Introduzione alla Magia e una seconda volta nel 1971 dalle Edizioni Mediterranee, con lo stesso titolo. Nel 1987, anche le Edizioni I Dioscuri, ripubblicarono i tre volumi di Bocca. Tutte le le edizioni risentono della revisione operata da Julius Evola già a partire dagli anni Quaranta e ripetuta più volte nel corso degli anni. L’editore Tilopa di Roma ha invece pubblicato negli anni 1980-1981 la ristampa anastatica dei fascicoli originali, senza quindi le successive revisioni di Evola.

I seguenti personaggi fecero parte del Gruppo di Ur e collaborarono alle riviste Ur e Krur (tra parentesi gli pseudonimi):

Leone Caetani (probabilmente Ekatlos), kremmerziano e neopagano.
Giovanni Antonio Colonna di Cesarò (Arvo), antroposofo.
Giovanni Colazza (Leo), antroposofo.
Girolamo Comi (Gic), poeta prima antroposofo, poi cattolico.
Guido De Giorgio (Havismat), cattolico vicino al pensiero di René Guénon.
Aniceto Del Massa (Sagittario), pitagorico e forse massone.
Julius Evola (Agarda, Arvo in alcuni casi, Breno?, Ea, Iagla, Krur?).
Nicola Moscardelli (Sirio, Sirius), filosofo cattolico.
Arturo Onofri (Oso), poeta antroposofo.
Giulio Parise (Luce), pitagorico e massone.
Ercole Quadrelli (Abraxa, Tikaipos), kremmerziano.
Arturo Reghini (Henìocos Arìstos, Pietro Negri), pitagorico e massone.
Corallo Reginelli (Taurulus), prima antroposofo, poi ermetista.
Domenico Rudatis (Rud), alpinista.
Emilio Servadio, psicanalista (Apro?, Es).

Altri personaggi non ancora identificati usarono gli pseudonimi di Alba (probabilmente antroposofo), Arom, Nilius, Primo Sole, Zam.

Secondo Del Ponte, pur non essendoci attestazioni documentarie ma solo testimonianze orali, potrebbero aver fatto parte del Gruppo di Ur (senza però scrivere sulla rivista) anche l’ingegnere aretino Moretto Mori e Amerigo Bianchini, entrambi amici di Reghini (dopo l’espulsione di Guido Bolaffi, Bianchini divenne il maestro venerabile della loggia Hermes di Firenze, facente parte del Rito Filosofico Italiano)

Gruppo di UR – UR (1928) 2.vol. Ed Tilopa

Il Gruppo di Ur è stato un sodalizio magico attivo in Italia alla fine degli anni venti.

Direttore del gruppo fu probabilmente Julius Evola alternato da Arturo Reghini fino a quando egli ne fece parte.

Il gruppo si dichiarava indipendente da qualsiasi scuola o movimento esoterico del tempo (occultismo, massoneria, teosofia, spiritismo, ecc.) in quanto la Tradizione esiste di per sé e non è legata ad alcuna scuola. Di fatto però le principali componenti esoteriche rappresentate nel gruppo furono quella antroposofica, quella kremmerziana e quella massonico-pitagorica, oltre ad alcuni cattolici.

Secondo Evola gli obiettivi del gruppo furono essenzialmente due:

suscitare una superiore forza metafisica che potesse aiutare i singoli membri a operare magicamente;
utilizzare questa forza superiore per poter esercitare un’influenza magica sulle forze politiche del tempo.

All’interno del gruppo vi furono dei tentativi di rivitalizzare la componente esoterica-iniziatica del paganesimo tradizionale romano, da parte di Arturo Reghini, di alcuni antroposofi (come Giovanni Cesarò), di Evola stesso, e del personaggio noto con lo pseudonimo di Ekatlos. La relazione dello stesso Ekatlos, pubblicata nel 1929 sulla rivista Krur (articolo La scena e le quinte), su un tentativo da parte di alcuni componenti del gruppo di esercitare una pressione sul fascismo per imprimerne una svolta in senso pagano, rientra nel secondo degli obiettivi del gruppo così come li ha delineati Evola.

Vennero costituite diramazioni del gruppo in altre città (come si evince dagli articoli Glosse varie: costituzione di una catena magica, in Ur 1927 e Istruzioni di catena, in Ur 1928), denominate “catene”, delle quali se ne conosce l’esistenza solo per la città di Genova (dall’articolo Esperienze di catena, in Krur 1929). Sono ignoti i componenti della catena di Genova ma si sa che era costituita da cinque persone e che il suo direttore era un ex kremmerziano.

Dopo la seconda guerra mondiale un sodalizio in Italia avrebbe ripreso il messaggio del Gruppo di Ur: il Gruppo dei Dioscuri. Julius Evola fu il denominatore comune dei due Gruppi, in quanto assistette al percorso della nuova esperienza esoterica, che fu voluta da alcuni giovani a lui molto vicini, che frequentarono casa sua negli anni cinquanta e sessanta e che a lui si ispirarono. È certo che Evola fosse costantemente informato dell’iniziativa, e che ebbe visione dei quattro fascicoli di ispirazione tradizionale (I Fascicoli dei Dioscuri, pubblicati all’interno del Movimento Politico Ordine Nuovo) prima che essi fossero diffusi tra il 1969 ed il 1973. Il Gruppo dei Dioscuri operò a Roma, Napoli, Messina e Milano, e diversamente dall’esperienza del Gruppo di Ur, che si ispirò a varie Tradizioni ed esperienze, ebbe al centro del proprio intento operativo la Tradizione romana prisca. La notizia relativa ad un suo scioglimento, diffusa in particolare attraverso gli scritti di Renato Del Ponte, appare falsa e priva di qualsiasi fondamento, in quanto il Gruppo dei Dioscuri risulta per certo essere stato ininterrottamente attivo fin dal 1969, ed è tuttora costituito dai discepoli dei fondatori, così come è noto a Sandro Consolato, Direttore de “La Cittadella”, rivista del Movimento Tradizionale Romano, che ne riferisce la notizia nei suoi scritti.

Espressione del gruppo fu una rivista nella quale gli autori degli articoli si firmavano con uno pseudonimo, come consuetudine in tutte le scuole iniziatiche, perché ritenevano che non contasse la persona ma l’insegnamento, che a sua volta trascende il singolo individuo. Inoltre l’anonimato evitava che il lettore si facesse influenzare dalla identità degli autori e dalla loro appartenenza a questa o quella corrente esoterica del tempo. Direttore della rivista fu Julius Evola da solo nel 1927, insieme a Arturo Reghini e Giulio Parise nel 1928, di nuovo da solo nel 1929.

La materia trattata dalla rivista è divisa in dottrina, pratica (esposizione di metodi, indirizzi di tecnica e di disciplina), esperienze (relazioni di esperienze interiori effettivamente vissute), testi (pubblicazione di testi, di frammenti di testi o traduzioni di testi, rari o poco noti, di Oriente e d’Occidente, opportunamente chiariti, annotati o sintetizzati da chi ne abbia competenza e tutti volti ad un suscitamento, ad una organizzazione, ad un risveglio) e glosse (considerazione di problemi imposti da particolari fenomeni, per cui si sia condotti al senso di una realtà e di una possibilità trascendente gli angusti quadri in cui si è chiuso l’uomo e la sua scienza).

Nella rivista vennero pubblicati alcuni testi di interesse magico-ermetico-alchemico di varia provenienza; vi sono testi antichi (il rituale mithriaco del Gran Papiro Magico di Parigi, estratti dal de Mysteriis di Giamblico, i Versi d’oro di Pitagora, uno scongiuro magico pagano, Massime di saggezza pagana di Plotino), rinascimentali (De Pharmaco Catholico, un codice plumbeo alchemico italiano, Clavis Philosophiae Chemisticae di Gerard Dorn, La dignità dell’uomo di Pico della Mirandola), moderni (brani tratti da Il Golem e Il volto verde di Gustav Meyrink, il saggio Prospettive tratto da Musica delle fonti di Otokar Brezina) e orientali (un brano del primo capitolo del Kularnava Tantra, alcuni passi del Majjhima Nikaya, brani dallo Shri chakra sambhara, tre canti di Milarepa).

La rivista uscì con il nome di Ur negli anni 1927 (10 fascicoli, di cui due doppi) e 1928 (8 fascicoli, di cui quattro doppi), mentre nel 1929 a seguito dell’uscita dal gruppo di Reghini e Parise, la direzione fu assunta dal solo Evola che cambiò il nome della rivista in Krur (8 fascicoli, di cui due doppi). Nel dicembre 1929 uscì l’ultimo numero di Krur, sul quale Evola annunciava lo scioglimento del gruppo e il proseguimento dell’attività in una nuova rivista dal titolo La Torre, della quale uscirono 10 numeri (dal febbraio al giugno 1930) ma che fu costretta a chiudere per l’ostilità del regime e per alcuni attacchi squadristi. Alla rivista La Torre collaborarono anche alcuni ex appartenenti al Gruppo di Ur: Guido De Giorgio (con lo pseudonimo di Zero), Girolamo Comi, Domenico Rudatis, Emilio Servadio.

I fascicoli di Ur e Krur furono poi ripubblicati rilegati nel 1955-1956 in tre volumi dall’editore Bocca di Roma sotto il titolo di Introduzione alla Magia e una seconda volta nel 1971 dalle Edizioni Mediterranee, con lo stesso titolo. Nel 1987, anche le Edizioni I Dioscuri, ripubblicarono i tre volumi di Bocca. Tutte le le edizioni risentono della revisione operata da Julius Evola già a partire dagli anni Quaranta e ripetuta più volte nel corso degli anni. L’editore Tilopa di Roma ha invece pubblicato negli anni 1980-1981 la ristampa anastatica dei fascicoli originali, senza quindi le successive revisioni di Evola.

I seguenti personaggi fecero parte del Gruppo di Ur e collaborarono alle riviste Ur e Krur (tra parentesi gli pseudonimi):

Leone Caetani (probabilmente Ekatlos), kremmerziano e neopagano.
Giovanni Antonio Colonna di Cesarò (Arvo), antroposofo.
Giovanni Colazza (Leo), antroposofo.
Girolamo Comi (Gic), poeta prima antroposofo, poi cattolico.
Guido De Giorgio (Havismat), cattolico vicino al pensiero di René Guénon.
Aniceto Del Massa (Sagittario), pitagorico e forse massone.
Julius Evola (Agarda, Arvo in alcuni casi, Breno?, Ea, Iagla, Krur?).
Nicola Moscardelli (Sirio, Sirius), filosofo cattolico.
Arturo Onofri (Oso), poeta antroposofo.
Giulio Parise (Luce), pitagorico e massone.
Ercole Quadrelli (Abraxa, Tikaipos), kremmerziano.
Arturo Reghini (Henìocos Arìstos, Pietro Negri), pitagorico e massone.
Corallo Reginelli (Taurulus), prima antroposofo, poi ermetista.
Domenico Rudatis (Rud), alpinista.
Emilio Servadio, psicanalista (Apro?, Es).

Altri personaggi non ancora identificati usarono gli pseudonimi di Alba (probabilmente antroposofo), Arom, Nilius, Primo Sole, Zam.

Secondo Del Ponte, pur non essendoci attestazioni documentarie ma solo testimonianze orali, potrebbero aver fatto parte del Gruppo di Ur (senza però scrivere sulla rivista) anche l’ingegnere aretino Moretto Mori e Amerigo Bianchini, entrambi amici di Reghini (dopo l’espulsione di Guido Bolaffi, Bianchini divenne il maestro venerabile della loggia Hermes di Firenze, facente parte del Rito Filosofico Italiano)

Julius Evola – Cavalcare la Tigre

Nuova edizione – con un saggio introduttivo di Stefano Zecchi. Julius Evola tratta in quest’opera del problema dei comportamenti che per un tipo umano differenziato si addicono in un’epoca di dissoluzione, come l’attuale. E “orientamenti esistenziali per un’epoca della dissoluzione” è il sottotitolo esplicativo che l’Autore stesso dettava per la prima edizione del 1961. Il libro, però, venne pensato all’inizio degli Anni Cinquanta – per poi essere adattato allo svilupparsi della situazione contingente una decina d’anni dopo – insieme a Gli uomini e le rovine, che uscì nel 1953. I due saggi dunque, non devono essere considerati in contrapposizione, ma viceversa come complementari. Per essi è possibile adottare la definizione che Evola diede per i suoi due libri sulla sapienza orientale, Lo yoga della potenza e La dottrina del risveglio: così, Gli uomini e le rovine è analogamente al primo l’indicazione della “via umida”, cioè della affermazione e della realizzazione in atto; Cavalcare la tigre illustra come il secondo la “via secca”, cioè quella intellettuale, interiore, personale. Partendo da una decisa opposizione a tutto ciò che è residuale civiltà e cultura borghese, viene cercato un senso dell’esistenza di là del punto-zero dei valori, del nichilismo, del mondo dove “Dio è morto”. Il detto orientale “cavalcare la tigre” vale per il non farsi travolgere e annientare da quanto non si può controllare direttamente, mentre è possibile così evitarne gli aspetti negativi e forse anche ipotizzare una possibilità di indirizzo: esso quindi comporta l’assumere anche i processi più estremi e spesso irreversibili in corso per farli agire nel senso di una liberazione, anziché – come per la grande maggioranza dei nostri contemporanei – in quello di una distruzione spirituale. Cavalcare la tigre può dunque venire considerato, come scrive Stefano Zecchi nel suo saggio introduttivo, quasi uno speciale “manuale di sopravvivenza” per tutti coloro i quali, considerandosi in qualche modo ancora spiritualmente collegati al mondo della Tradizione, sono costretti però a vivere nel mondo moderno. Un libro complesso, fra i più importanti del suo autore, che durante gli anni della “contestazione” venne contrapposto alle opere di H. Marcuse. Un libro spesso anche oggetto di equivoci e fraintendimenti di due generi opposti: da un lato accusato di aver indotto molti a chiudersi in una torre d’avorio; dall’altro, viceversa, di aver spinto altri ad una lotta concreta e violenta.

Julius Evola – Fascismo e Terzo Reich

Pubblicato nel 1946 e ampliato nel 1970, questo saggio sul fenomeno politico e ideologico che furono fascismo e nazionalsocialismo, conserva a decenni di distanza la sua originalità. Si tratta, come volle precisare l’Autore nella prima edizione, di «una analisi critica dal punto di vista della Destra», priva di esaltazioni e idealizzazioni nostalgiche, di uno studio che si pone più sul piano metapolitico che politico e che, capitolo per capitolo, prende le mosse dai fatti contingenti quali si verificarono tra le due guerre, per poi spostarsi e analizzarli sul piano dottrinario. Una ricerca di tal genere risulta ancora oggi unica e originale, anche perché la corrispondente discriminazione fra quel che nel fascismo e nel nazionalsocialismo ebbe o poteva avere un significato positivo e ciò che in essi presentò un carattere problematico, incerto e deviato, viene svolta su un piano oggettivo e impersonale. Ne consegue che Destra in senso tradizionale e fascismo, per Evola, non si identificano senz’altro. Questa nuova edizione dell’opera è, rispetto alle precedenti, praticamente raddoppiata con l’aggiunta di due appendici, una per sezione, che riuniscono diciassette articoli e saggi pubblicati fra il 1930 e il 1973, con un triplice scopo: dimostrare principalmente che il punto di vista di Julius Evola non nacque nel 1964 col senno di poi, ma assai prima venendo già espresso, in modo esplicito e adatto al contesto storico, negli anni Trenta e Quaranta; approfondire alcuni spunti trattati sommariamente nei diversi capitoli del libro; allargare lo sguardo anche su altri «fascismi» (Guardia di Ferro, Falange, idea imperiale nipponica).

Julius Evola – Fenomenologia della Sovversione

Quest’ampia raccolta di saggi evoliani puntualizza la natura, i metodi di azione e gli scopi della sovversione antitradizionale, non limitandosi a fornire un quadro generico della “guerra occulta”, ma precisando anche quale debba essere il punto di vista e quali i riferimenti certi che debbono essere assunti da chi, ben lungi dall’accettare passivamente uno stato di fatto, voglia assumere un ruolo attivo nella difesa dei principi tradizionali.

Dal libro – «Un antico adagio dice: Diabolus Deus inversus, esprimendo l’idea che il male è meno l’effetto di una negazione che non del capovolgimento e della perversione di un ordine superiore. Questa verità vale anche nel campo storico. La storia degli errori, ai quali si deve la crisi della più recente civiltà occidentale, aspetta ancora di essere scritta e proprio nel riferimento ad essa l’adagio or ora citato potrebbe rivelare un profondo contenuto di verità…».

Julius Evola – Gli Uomini e le Rovine

In questo libro Julius Evola, partendo dai principi di un “tradizionalismo integrale” traccia le linee essenziali di una dottrina dello Stato e di una visione generale della vita a carattere “rivoluzionario-conservatore”: rivoluzionario, con negazione decisa delle ideologie e dei miti che dominano il mondo dell’attuale decadenza europea e specialmente italiana (anticapitalismo, antiliberalismo, anticomunismo); conservatore, come ripresa in tutti i domini dell’idea aristocratica, gerarchica e qualitativa che ha già costituito la base di una superiore tradizione dell’Occidente. Il senso dell’autorità e del vero Stato, l’ideale “organico”, la denuncia della “demonia dell’economia”, il significato di un nuovo realismo antiborghese, positivo, antimarxista, l’indicazione dei punti di riferimento per la formazione di un tipo umano che vive nella modernità ma non l’accetta ed anche di una élite, l’attacco allo “storicismo” e la revisione della nostra storia al di fuori delle falsificazioni della vulgata corrente, una nuova scelta delle “tradizioni” italiane, il senso della “guerra segreta” condotta da forze mascherate non soltanto nel campo politico-sociale e l’indicazione delle armi usate in questa guerra che ha portato allo sfacelo dell’Europa tradizionale, sono fra i principali argomenti affrontati ne Gli uomini e le rovine (1953), le cui idee sono contenute in nuce negli “undici punti” di Orientamenti (1950) di cui si ripubblicano le bozze con le correzioni autografe del filosofo. Un libro che è certamente il più controcorrente e il più “reazionario” (in senso positivo e legittimo) che sia stato scritto in Europa dopo la seconda guerra mondiale.

Julius Evola – I Tre aspetti del problema ebraico

Quella che qui viene messa in luce è l’anima complessa dell’ebraismo, il cui radicamento tradizionale appare minato dall’influenza disgregatrice del giudaismo. Gli Ebrei – spiega Evola – sono le prime vittime della ‘sovversione’ moderna. Ma, come suggerisce l’ebreo Quinzio, Marx e il marxismo, Freud e la psicanalisi, Einstein e la relatività, Kafka, Wittgenstein, non possono non essere considerati i corifei del mondo contemporaneo.

Julius Evola – Il Cammino del Cinabro

Se in qualche modo si vuole comprendere l’intera opera evoliana, questo libro è imprescindibile. È la naturale e autografa guida all’itinerario bio-bibliografico di Julius Evola. “Questo libro può fornire anzitutto una utile guida per meglio orientarsi nell’insieme assai complesso e vario dlele opere e dell’attività di Evola: all’arte d’avanguardia (arte astratta e dadaismo) alla filosofia speculativa, dagli studi orientali alal critica dell’attuale civiltà, dalle discipline esoteriche alal filosofia della storia e alla dottrina dello Stato.
Il libro può avere, inoltre, il valore di un “documento umano” e di testimonianza di uno spirito libero, in ogni senso (non è mai stato iscritto ad un partito), attraverso i suoi tempi. Mentre descrive il formamrsi graduale di un pensiero, rievoca esperienze, lotte e situazioni di un periodo lungo decenni, senza autocompiacimento o la tendenzialità di odierni autori.
Da qui una specie di congiura del silenzio intorno a Evola da parte della cultura e critica ufficiale, nonostante che un pubblico attento (e non tutto composto di improvvisati discepoli) segua ogni sua nuova opera e nonostante diversi suoi libri siano noti e tradotti all’estero, dove Evola viene considerarto una delle figure più significative, anche se discusse, dalal cultura italiana”.

Julius Evola – Il Mistero del Graal

Nuova edizione riveduta. Con un saggio introduttivo di Franco Cardini . Chi conosce la storia del Graal e dei cavalieri della Tavola Rotonda soltanto attraverso il Parsifal di Richard Wagner o le divagazioni di certi ambienti “spiritualistici”, il film Excalibur di John Boorman o i moderni romanzi di “fantasy” da questo libro di Julius Evola sarà condotto in un mondo insospettato e suggestivo, ricco di simboli, di elementi metafisici e di significati profondi. Basandosi su tutti i principali testi originali della leggenda e di cicli affini (antichi francesi, inglesi e tedeschi), viene precisato il senso del mistero del Graal, mistero che non ha un carattere vagamente mistico, ma iniziatico e regale, e che si lega ad una tradizione anteriore e preesistente al cristianesimo, mentre presenta connessioni essenziali con l’idea di un centro supremo del mondo e di un misterioso dominatore. Delle varie avventure cavalleresche, svolgentisi in un’atmosfera strana e “surreale”, l’Autore indica il significato nascosto, rifacentesi essenzialmente ad esperienze e prove interne. Anche il simbolismo della “donna” e dell’eros viene adeguatamente spiegato per le valenze che ha in questo specifico contesto. Dopo di che, l’esame si porta sul significato che ebbe l’improvviso apparire e scomparire delle leggende del Graal nel Medioevo occidentale. Esso rappresentò la più alta professione di fede del ghibellinismo ed ebbe strette relazioni col templarismo. Julius Evola considera poi varie correnti che in un certo modo ripresero l’eredità del Graal dopo la distruzione dell’Ordine dei Templari e il declino del Sacro Romano Impero. Nel parlare dei Templari, poi dei Catari, del “Fedeli d’Amore” (cui appartenne anche Dante), degli ermetisti e via via fino ai rosacruciani, l’Autore dischiude al lettore altri inediti àmbiti culturali. Di notevole interesse, per il punto di vista originale, sono le considerazioni finali sul senso della massoneria e sulle sue trasformazioni nel tempo, oltreché su quei temi delle leggende trattate che non sono soltanto di ieri ma presentano una perenne attualità che si ritrova – insospettabilmente – sino ai nostri giorni tecnologici e materialisti. Nell’arco degli ultimi quattro o cinque lustri abbiamo inoltre assistito ad un continuo pubblicare di saggi e romanzi sul Medioevo, la Cavalleria e il Graal sia come nuove opere, sia come ristampe di testi classici. In questo clima – tratteggiato per ampie linee comparatiste corredate da un’ampia bibliografia nel saggio di appendice a questa nuova edizione – Il mistero del Graal svolge ancora oggi, e forse oggi più che mai, una propria funzione essenziale: non soltanto come testo di amplissima erudizione, di insospettate rivelazioni, di affascinante lettura, ma soprattutto come strumento metodologico di un’interpretazione simbolica insuperata, tale da consentire il formarsi di un punto di vista eterodosso e controcorrente rispetto alla cultura e alla storiografia ancora predominanti.

Julius Evola – Il Mito del Sangue

È questa un’opera storica nella quale vengono esposte oggettivamente le teorie elaborate negli ultimi secoli sul tema della razza. Un itinerario complesso – che si snoda tra miti, scienza e ideologie – che unisce il rigore alla chiarezza, ed è costantemente lumeggiato dall’ottica tradizionale dell’Autore. Completano l’opera ventidue tavole originali fuori testo.

Dal libro – «Così ben raramente accada di incontrare, nel mondo antico, la parola razza: non si sentiva bisogno di parlare di razza nel senso moderno, perché la si aveva. Ci si interessava, se mai, maggiormente delle forze mistiche che si presentivano dietro quelle del sangue e della gens: come nei culti patrizi romani e, in genere, arii, relativi a lari, penati, eroi archegeti. Si avvertiva però ben distinta la necessità di preservare il sangue, di mantenere e trasmettere nella sua integrità un patrimonio prezioso e insostituibile legato al sangue…».

Julius Evola – La Dottrina del Risveglio

La Dottrina del Risveglio è un libro scritto da Julius Evola, pubblicato la prima volta nel 1943, e rappresenta la migliore “guida” per avventurarsi nel mondo del Buddhismo Theravada.
Il testo è interessante sotto molteplici aspetti, che andrebbero analizzati punto per punto, ma per brevità, mi concentrerò su uno in particolare.
La  falsa credenza che Evola allontana dal lettore occidentale, è quella che vorrebbe dipingere il buddhismo come una “moda esotica”, in puro stile new age. In realtà, il Buddhismo Theravada possiede alcuni elementi che lo rendono estremamente interno alla Tradizione europea, in particolare alla sua radice indoeuropea. Evola ne identifica 4: 1) comprende un sistema completo di ascesi; 2) è oggettivo e realistico; 3) è di puro spirito ario; 4) è estremamente adatto a un particolare ciclo storico, a cui appartiene anche l’attuale condizione umana.
Penso che sia utile spiegare brevemente i punti sopra indicati. Già in un altro articolo (Il percorso ascetico, lucedeldhamma.blogspot.com) abbiamo spiegato cosa si deve intendere per “percorso ascetico” all’interno del Buddhismo Theravada e in cosa esso si differenzia dalle altre religioni (via ascetica contro via discetica). Secondo Evola, la tradizione Theravada ha il particolare pregio di consentire di «isolare agevolmente gli elementi di una ascesi allo stato puro». Il pregio più importante che viene correttamente sottolineato è che si tratta di un’ascesi cosciente, caso piuttosto raro nel campo religioso; cioè, si tratta di raggiungere il sapere attraverso un percorso controllato dall’inizio alla fine (secondo la corretta definizione di ascesi come “esercizio”).
Per quanto riguarda il secondo punto, viene toccato un altro tasto fondamentale dell’insegnamento del Buddha; infatti, Egli non è né un “figlio di Dio”, né un “profeta” che “svela” la parola di Dio agli uomini. Il Principe Siddharta è un “uomo normale” – seppur nelle sue vite precedenti abbia accumulato moltissimi meriti, – il quale è riuscito a raggiungere l’ Illuminazione. Si tratta di un aspetto centrale; infatti, nel Buddhismo Theravada non viene mai detto di credere a ciò che ci viene insegnato, ma veniamo invitati a sperimentarlo in prima persona e a scoprire come esso sia «oggettivo e realistico». Ciò permette al Buddhismo di fuggire la metafisica tipica delle religioni abramiche, che Evola indica perfettamente nel “teismo”; cioè, la necessità di identificare un Dio esterno all’uomo, che in alcuni casi manda suo figlio tra gli uomini, o che  comunque fa discendere la propria verità sugli esseri umani. Un famoso monaco theravada era solito dire che bisogna approcciarsi agli insegnamenti dei maestri con lo stesso spirito con cui si chiede a qualcuno un’indicazione su un ristorante: costui ci indicherà quello che secondo la sua esperienza è il migliore, e nel quale egli si è trovato meglio; ma, questo non significa a priori che anche per noi sia il migliore, o quello che sarà il più adatto per i nostri gusti.

Julius Evola – L’Arco e la Clava

Il volume riunisce saggi già pubblicati separatamente altrove, o costituenti il testo di conferenze, o del tutto nuovi. Con “arco” e “clava” si sono voluti indicare i due principali domini trattati da questo insieme di scritti, in cui l`autore considera problemi molto vari.

Con l` “arco” si raggiungono obiettivi lontani, e a questo riguardo si ci riferisce a problemi di ordine superiore, come quelli delle relazioni fra Oriente e Occidente, del concetto di iniziazione, dell`essenza dei miti e dei simboli, del senso della romanità, della via dell`azione e della contemplazione, dell`ideale olimpico, dell`incontro delle religioni, dei centri iniziatici, del vero significato della Tradizione, e così via.

Con la “clava” si colpiscono e abbattono oggetti vicini, e qui si tratta di quei saggi che contengono una critica radicale e una presa di posizione di fronte a fenomeni vari del costume e della società contemporanei.

Così il lettore troverà affrontati anche argomenti attuali, molto correnti e alla portata di tutti, però inquadrati secondo punti di vista inusuali, anticonformisti e rifacentisi ad una superiore concezione della vita e dell`uomo.

In Appendice, L`arco e la clava 1930, cioè la riproduzione dei testi evoliani apparsi nella rubrica del quindicinale La Torre che aveva lo stesso titolo e gli stessi intenti che quasi quaranta anni dopo l`autore ha dato al presente volume.

Julius Evola – L’Idea di Stato

Vividi scritti di Evola sull’idea-archetipo intemporale del regime politico vero, il cui fondamento consiste nella trascendenza del principio di sovranità, e il cui processo di caduta è scandito dalla ‘legge’ della regressione delle caste. Lungi dal proporre una ‘ideologia’ dello Stato, il pensatore tradizionalista ricostruisce e ripercorre, in queste pagine, la via che conduce alla fonte stessa che conferisce l’autorità.

Julius Evola – L’Operaio nel Pensiero di Ernst Junger

Il volume apparve una prima volta nel 1960, quindi nel 1974. Questa nuova edizione è integrata da una appendice che riunisce altri interventi evoliani su Jünger pubblicati fra il 1943 e il 1974 che documentano l’evolversi del suo punto di vista, ed un’ampia bibliografia italiana dello scrittore tedesco.

La scelta di Evola di presentare al lettore italiano proprio L’Operaio, tra le molte opere di Jünger, è presto spiegata: si tratta infatti di quella maggiormente significativa del primo periodo dello scrittore, che per Evola era il più importante, in cui si affronta nella sua essenza il problema della visione e del significato della vita nell’epoca moderna, soprattutto nell’era della tecnica.

Analisi di vivo interesse non soltanto negli anni in cui venne scritto, ma tuttora quanto mai attuale, dato che la Modernità ha forse modificato volto, ma nella sostanza è rimasta identica riguardo a metodologie e scopi. Sicché quanto Jünger indicava nel 1932 agli uomini più responsabili vale ancor oggi sul piano di una concezione antiborghese ed “eroica” della vita, capace di risollevarli dallo stato di abbandono psicologico in cui sembravano precipitati.

Il libro di Jünger si presenta da un lato come una acuta diagnosi del mondo contemporaneo, lontana da ogni pessimismo di maniera o di ottimismo acritico, espressa con la forza della drammatizzante fantasia di un grande artista, dall’altra come l’indicazione di uno stile di vita per non diventare succubi della Modernità e, al contrario, volgere a proprio vantaggio le sue dinamiche distruttive. Sicché l’Operaio jüngeriano non è una classe sociale e ancor meno il “lavoratore proletario”, bensì il simbolo di un nuovo tipo umano capace di trasformare in forza spiritualmente formatrice tutto ciò che di apparentemente pericoloso presenta l’epoca ultima. Il che non poteva non interessare l’Evola de Lo yoga della potenza e di Cavalcare la tigre.

Un libro, quindi, che sul piano polemico si oppone al materialismo economico, agli ideali di una prosperità da “bestiame bovino”, alla borghesizzazione degli stessi gruppi che ostentano la divisa dell’antiborghesia, mentre sul piano costruttivo intende affermare la necessità di una educazione volta a formare un nuovo tipo d’uomo, disposto a dare assai più che a chiedere, al fine di superare la crisi da cui è sconvolto il mondo moderno. Infatti, la “via della salamandra” dell'”Operaio” jüngeriano che passa indenne attraverso il fuoco, è identica al “cavalcare la tigre” dell'”uomo differenziato” evoliano.

Julius Evola – Maschera e Volto dello Spiritualismo Contemporaneo

Nel commentare la quarta edizione del saggio evoliano Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, in uscita per le Edizioni Mediterranee di Roma, non si può non sottolineare come esso rappresenti una delle prove più convincenti di Julius Evola, intellettuale non accademico più o meno come Spengler, eppure adesso studiatissimo nelle Università dello Stivale. In questo libro uscito in prima edizione nel 1932 Evola si muove con agio non all’interno dei circuiti più noti nei quali la spiritualismo accede, con un indirizzo cristiano, ad un proprio sapere ufficiale, bensì all’interno di un circuito alternativo, ove gran parte della cultura rifiutata dalla teologia del mondo cattolico sta rialzando la testa a cavallo della cosiddetta contemporaneità.

Julius Evola – Meditazioni delle Vette

“Non le cime, non le difficoltà, non il record mi interessano, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna. Questo libro ci dà la risposta”. Il libro in questione è Meditazioni delle Vette di Julius Evola, mentre l’autore della frase, che compare sulla copertina del volume, è Reinhold Messner. Basterebbero queste uniche notazioni per farci comprendere il rilievo che il testo evoliano assume sia per gli amanti della montagna che per gli studiosi e i lettori del grande pensatore della Tradizione.

Meditazioni delle Vette comparve nel 1974 per i tipi delle Edizioni del Tridente, grazie ad una felice intuizione di Renato del Ponte, il quale riunì in volume, col consenso dell’autore, un certo numero di articoli sull’alpinismo e sulla montagna scritti da Evola tra il 1930 e il 1942 e usciti in varie riviste dell’epoca. L’idea di del Ponte ebbe un meritato successo di pubblico, testimoniato dalle numerose edizioni che si susseguirono negli anni, sia in Italia che all’estero: si pensi che, andate rapidamente esaurite le prime due, le esigenze, chiamiamole così, del mercato portarono addirittura ad una ristampa abusiva, un’edizione ‘pirata’ insomma. Quella appena uscita, inserita nella collana ‘Opere di Julius Evola’ delle Edizioni Mediterranee a cura di Gianfranco de Turris (pp. 211, Euro 19,50) è addirittura la quinta edizione, ampliata rispetto alla quarta del 1997 di tre scritti, cosicchè il numero complessivo dei testi presenti nell’antologia è adesso di 22.

La novità più rilevante in questa riproposizione della raccolta evoliana è tuttavia, a nostro parere, il saggio introduttivo di Luisa Bonesio, docente di Estetica all’Università di Pavia, e sicuramente nota ai lettori delle pagine culturali del Secolo d’Italia come la più accreditata studiosa in Italia del pensiero di Ernst Jünger. Il suo intervento, L’ultima vetta: Evola e le montagne della Tradizione, assurge sicuramente a contributo fondamentale per la comprensione del particolare ed essenziale rapporto che legava l’autore di Rivolta contro il mondo moderno alla montagna.

Ma ritorniamo a Messner, il quale, lungi dall’essere qui solamente il compilatore della frase citata all’inizio, può offrire una via d’accesso per comprendere il significato, niente affatto marginale, che l’alpe assume nel pensiero e nell’esperienza di Julius Evola. Nella nota introduttiva al volume, infatti, Renato del Ponte rileva come l’alpinismo evoliano sia da considerare “elitario [e] assai differente dagli esibizionismi o dai tecnicismi oggi di moda, nonostante molte resipiscenze e il recente conforto di alcune notevolissime eccezioni”. Nell’edizione del 1986 in nostro possesso questo passo veniva accompagnato da una nota a piè di pagina – scomparsa nella attuale versione fresca di stampa – che chiariva come la più luminosa delle eccezioni fosse rappresentata proprio da Reinhold Messner, definito non solo “il più grande alpinista vivente”, ma anche, e soprattutto, “il tipo di alpinista ideale prefigurato da Evola”. A questo punto si può ben comprendere come la frase dello scalatore altoatesino non sia affatto fuori luogo in un contesto come quello del libro che stiamo trattando, esortandoci, al contrario, a interrogarci sul significato che viene ad assumere l’esperienza della montagna nell’opera evoliana. Significato che è del tutto spirituale, mille miglia lontano da ogni ossessione di tipo sportivo e superomistico o, peggio ancora, di stampo turistico-massificante. L’andare per i monti è infatti per Evola soprattutto liberazione, è “una catarsi, uno svegliarsi, un rinascere in qualcosa di trascendente, di divino”. Affermazione, questa, che riecheggia il celebre detto del saggio tibetano Milarepa, per il quale “andare per montagne selvagge, è una via alla liberazione”: non a caso Evola traduce e commenta in Meditazioni delle Vette “Il canto della gioia” da cui è tratta tale citazione.

Alpinismo, quindi, come via per il superamento dei limiti della condizione umana, come “compimento interiore” e “intima trasfigurazione” nella forma dell’ azione e della contemplazione, che divengono “due elementi inseparabili di un tutto”. Un’ascesa, pertanto, che si trasforma in ascesi, in eroica ascesi. Espressione, l’alpinismo, di una “volontà eroica [che] cerca altri sbocchi oltre la rete degli interessi pratici, delle passioni e delle cupidigie che ogni giorno si serra sempre di più”. E’, ancora, fuga dalle bassure della quotidianità, ricerca del contatto con l’elementare, il primordiale, l’originario, il non addomesticato che si disvela e rileva nelle altezze inviolate, nella tormentata purezza dei ghiacciai alpini, nell’incontaminata asprezza delle giogaie montane. Ove, appunto, l’uomo differenziato si ricongiunge alla sua “natura umana più profonda, che è quella stessa delle forze elementari della terra, la cui purità possente e calma si fissa nelle vette ghiacciate e lucenti”. L’esperienza dell’alpe, quindi, non si riduce in Evola a mero ‘contemplativismo’ estetico-borghese di derivazione romantica – cosa ben diversa, comunque, dal senso eroico della contemplazione – né, tantomeno, a lotta superomistica per la conquista della montagna. Come ben rileva Luisa Bonesio nel citato saggio introduttivo, non si tratta tanto, nell’alpinismo metafisico informato ai principii della Tradizione, di “<< vincere>> la montagna, quanto se stessi”. E questa vittoria su se stessi trova per Evola il suo ambiente più adatto in quel “mondo dell’alta montagna [che] va a parlare [alla] eredità primordiale” dell’uomo differenziato, facendo “emergere lentamente [in lui] il senso di quella libertà più che umana, che non significa evasione, ma è principio di una forza pura” che si realizza nel “lucido dominio della parte irrazionale dell’essere umano”.

Le terre alte e le vette che si stagliano all’orizzonte come una visione simbolica appaiono pertanto essere un mondo ‘altro’ rispetto alle bassure della pianure, un mondo nel quale è possibile realizzare il Sé anche nei perigliosi percorsi dell’età oscura. Non è un caso che Evola metta bene in rilievo come la montagna esiga un comportamento o, meglio, uno stile che si contrapponga a quello cittadino della civilizzazione contemporanea. Innanzitutto “la castità della parola e della espressione. La montagna insegna silenzio. Disabitua dalla chiacchiera, dalla parola inutile, dalle inutili, esuberanti effusioni. Essa semplifica e interiorizza”. Poi “la disciplina interna, il controllo completo dei riflessi” che mira ad una “concentrazione lucida conforme allo scopo”. E, infine, l’alta montagna è luogo propizio al manifestarsi dell’impersonalità attiva in quanto “ci abitua ad un’azione, che fa a meno degli spettatori, di un eroismo che rifugge dalla retorica e dal gesto”.

Evocatrice, anche, la tacita e luminosa maestà dell’alpe. E la massima evocazione di idee e di simboli compare nell’articolo che dà il titolo all’intera raccolta, Meditazione delle vette, laddove Evola con rara efficacia, di fronte al grandioso spettacolo di cime e di ghiacciai che si squadernano alla vista dall’’alto del monte Bianco, è insensibilmente portato a pensare all’ “idea di una superiore, immateriale unità, del fronte invisibile di tutti coloro che […] oggi lottano in ogni terra una stessa battaglia, che vivono una stessa rivolta e sono i portatori di una stessa intangibile tradizione […] Forze apparentemente isolate e disperse […] intese a custodire l’ideale assoluto dell’ Imperium e a prepararne l’avvento, dopo che il ciclo relativo a questi tempi oscuri sarà chiuso”.
Le vette qui parlano, allora come oggi, a chi sa cogliere il loro linguaggio, contrassegnato dal sigillo dell’ aeternitas.

Julius Evola – Metafisica del Sesso

Ciò che molte civiltà hanno riconosciuto nell’uso del sesso per fini estatici, iniziatici e magici, nelle forme più intense della vita erotica e nell’amore comune. Quest’opera è unica nel suo genere per il fatto che considera il sesso e l’esperienza del sesso secondo aspetti e dimensioni diversi da quelli cui si sono arrestate le ricerche psicologiche, sessuologiche e anche psicanalitiche. Come afferma l’Autore, dato che l’epoca attuale è caratterizzata da una specie di ossessione del sesso, e dato anche che la psicanalisi si è sforzata di mettere in risalto il sesso come una potenza elementare oscura e sub-personale, il suo proposito è stato di scoprire una realtà di essa non meno profonda, ma di natura superiore, trascendente.

Il termine “metafisica” nel libro è usato infatti in un doppio senso. Anzitutto, in quello di una ricerca del significato ultimo che hanno l’eros e l’esperienza sessuale, significato che porta al di là di tutto quel che è fisiologia, istinto di riproduzione, semplice carnalità o pallida sentimentalità. In secondo luogo, una ricerca volta a scoprire non solamente nelle forme più intense della vita erotica, ma anche nell’amore comune, baleni di una “trascendenza”, rimozioni momentanee dei limiti della coscienza ordinaria dell’uomo e della donna e perfino apertura sul sovrasensibile.

Tale ricerca ha per controparte la documentazione di ciò che molteplici civiltà antiche o noneuropee hanno riconosciuto in fatto di sacralizzazione del sesso, di un uso di esso per fini estatici, magici, iniziatici o evocatori. Al lettore viene offerto un vastissimo panorama che va dai riti segreti e orgiastici tantrici e dal dionismo alla demonologia e alle esperienze del Sabba e dei “Fedeli d’Amore” medievali, dalla prostituzione sacra e dai Misteri della Donna a pratiche cabalistiche, arabe, estremo-orientali, ecc. L’accennata metafisica del sesso permette, d’altra parte di cogliere ciò che agisce anche nel profondo fenomeni come il pudore, la gelosia, il sadomasochismo, la nudità femminile, il complesso amore-morte e via dicendo.

Inoltre, il libro contiene una ricerca comparata nel campo della mitologia la quale da modo di descrivere gli “archetipi” maschili e femminili e, partendo da essi, i tipi fondamentali di uomo e di donna (“dèi e dee, uomini e donne”), di abbozzare una psicologia dell'”uomo assoluto” e della “donna assoluta” e di individuare le varietà e le condizionalità del magnetismo sessuale. A parte l’originalità delle idee e la spregiudicatezza con cui sono trattati gli argomenti, il materiale selezionato, raccolto negli ambiti più diversi – dalla scienza delle religioni alla psichiatria, dall’etnologia alla sociologia, alla simbologia, alle discipline iniziatiche o esoteriche, alla storia della civiltà – è tale da non trovare riscontro in altra opera esistente.

In un clima che già Evola aveva già definito di “pandemia sessuale” e quindi di “banalizzazione del sesso”, in un momento in cui di fronte al crollo di ogni “certezza” politica e ideologica, morale e religiosa, il sesso è stato indicato come l’ultima e l’unica cosa in cui credere, quest’opera ha ancora una sua funzione da assolvere, non soltanto perché rimane l’unica ad affrontare l’argomento da un punto di vista tanto vasto quanto originale, ma anche perché ne offre un’interpretazione ed una spiegazione che lo portano appunto al di là e al di sopra della mercificazione cui da decenni è oggetto.

Alla meraviglia da parte di alcuni per il fatto che un “teorico della tradizione”, un “filosofo politico”, si sia potuto occupare in modo tanto ampio di sesso E vola risponde: “Ciò che ho detto in più occasioni come critica del costume con riguardo ai sessi non è che un caso particolare della posizione che difendo in tutti i campi”.

Julius Evola – Metafisica della Guerra

Il volume raccoglie articoli evoliani scritti nel periodo 1935-50 ed apparsi principalmente sul “Diorama mensile” de “Il Regime Fascista” e sul periodico “La Difesa della Razza”, incentrati sulle tematiche della lotta, della guerra e del vero eroismo. I testi hanno un carattere volutamente divulgativo e, specie quelli composti nell’imminenza e durante la II guerra mondiale, riverberano in parte le peculiari contingenze e l’esigenza che l’Autore avvertiva di fornire, diremmo, un breviario di “etica guerriera” ai militari che si apprestavano a combattere. Ed in effetti Evola, nello spirito della Tradizione, sentiva la guerra, sia pur nella sua variante moderna tecnicizzata e disumanizzata, più come un opportunità che come una sciagura: opportunità di un distacco, di una crisi e di un risveglio.

Nello splendido e consistente saggio introduttivo, Roberto Melchionda, fornisce la coordinate entro cui il libro va riportato, senza svilire il significato della stessa esperienza biografica di Evola, che –è noto- partecipò volontario alla Grande Guerra. Contro lo stesso Autore, che ne “Il cammino del cinabro” liquida l’esperienza in poche righe, Melchionda è convinto che proprio la guerra guerreggiata abbia fornito ad Evola la prima crisi, il primo spostamento lucido della coscienza, dal quale si svilupperà la sua consapevolezza Tradizionale, cioè metafisica, della pugna come anticamera della grande guerra santa , che nel microcosmo umano vede Krsna guidare Arjuna contro Arjuna. E ritrova così, Melchionda, un testo di Jagla, pseudonimo usato da Evola nel periodo di Ur, in cui è descritta l’esperienza al fronte, di una notte passata in piedi a combattere contro i cannoneggiamenti e i proiettili degli obici nemici, senza provar paura, ma sperimentando la sovrana sicurezza di vivere, ed anzi la percezione di una più-che-vita. Allora, visto il tempo e vista l’età dell’Autore, non più che ventenne all’epoca degli avvenimenti, è probabile che quell’esperienza sia stato il momento di rottura tra l’Evola, giovane idealista, che entrava in guerra per ragioni estetiche e romantiche e l’Evola trasformato dalla stessa e definitivamente avviato a più elevate mete.

La tradizione islamica, quella germanica, l’epopea delle crociate, la devotio romana, la pratica del kamikaze Giapponese, sono i dati dai quali l’Autore muove nei diversi articoli, con l’unico intento di mostrare al lettore il significato ultimo dell’eroismo; il guerriero nella lotta col nemico vede il simbolo della propria interiorità, cioè il supporto reale per le più aspre battaglie interiori. La realizzazione eroica è quella che parte da lontano, da zero diremmo, e per questo si trova zeppa di prove paradossi durezze tanto maiuscole quanto irreali. Un momento di crisi si rende necessario, una fase di annientamento dell’io ove sono deposti i begli intenti, gli slanci di un eroismo estetizzante, i voti fatti per la patria. Tutto ciò scompare e si è precipitati nell’elementare, nel demonico. Di qui l’eroismo, che non è conduzione etica della battaglia, ma ardore sovrumano, hybris necessaria –nota Melchionda- a risollevarsi ed essere raccolti dalle walkyrie, se l’esito fu la morte, coronati d’alloro e quasi divinizzati, se alla guerra seguì la Vittoria. All’eroe è comunque tributata la gloria sia che muoia, ed allora sarà mors triumphalis, sia che vinca, ed allora sarà il Trionfo.

Julius Evola – Oriente e Occidente

L’interesse di Julius Evola per le dottrine orientali risale agli inizi della sua vita culturale. La conoscenza che egli ebbe delle filosofie e spiritualità giapponesi, cinesi, indiane non fu di certo superficiale e dilettantesca, ma approfondita grazie ad una intuitio intellectualis che gli consentiva di andare al fondo degli argomenti. La capacità che Julius Evola aveva di sintetizzare e comparare gli aspetti delle varie tradizioni occidentali ed orientali gli permetteva di individuare aspetti comuni e differenze esistenti fra loro, e spiegare agli uomini dei nostri giorni quanto ci fosse da apprendere da esse, senza considerarle una delle tante «mode» che imperversarono nei vari decenni del Novecento. Sicché fra il 1950 e il 1960 la sua competenza e originalità interpretativa venne consacrata con la collaborazione a East and West, l’organo dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente (ISMEO), fondato dall’orientalista e viaggiatore Giuseppe Tucci – che Evola conosceva sin dagli Anni Venti – e di cui era redattore capo Massimo Scaligero. Presigiosa e autorevole rivista internazionale di studi orientalistici, sulle sue pagine in quello stesso periodo scrissero Franz Altheim, Mircea Eliade, Alessandro Bausani, Lionello Lanciotti, Francesco Gabrieli, Pio Filippani-Ronconi.Nell’arco di un decennio Evola pubblicò quindici saggi e tre recensioni di libri, che in questo volume sono stati riuniti, oltre ad un altro contributo apparso negli Anni Quaranta quando la rivista si chiamava Asiatica. Con la sua scrittura profonda ma chiara, che spaziava oltre i limiti di una eccessiva specializzazione, Evola in quasi tutti i suoi inteventi effettuò una stringente comparazione sul modo in cui una indentica dottrina, o filosofia, o metodologia veniva interpretata in Occidente rispetto all’Oriente: il tantrismo, lo zen, il buddhismo, lo yoga, il Vedânta, le dottrine dello Svâdharma e dello Hara, e poi i rapporti fra l’Oriente le filosofie e i filosofi occidentali come Guénon, Eckhart, Shelling, l’esistenzialismo, e così via.

Julius Evola – Rivolta Contro il Mondo Moderno

La principale opera evoliana scritta prima del secondo conflitto mondiale, Rivolta contro il mondo moderno, ebbe in Italia non più di dieci recensioni, tutte su pubblicazioni di modesta diffusione1. Questo impegnativo «studio di morfologia delle civiltà e di filosofia della storia», certo molto originale nel panorama culturale del nostro paese, «non fu quasi affatto notato»2 dalla cultura “ufficiale” del regime fascista e anche da quegli autori, come Croce, Spirito, Volpicelli, Aliotta, Sciacca, Thilgher, che in altre occasioni si sarebbero interessati al pensiero di Evola, attribuendogli, quanto meno, rigore intellettuale e vasta cultura.
Tra gli studiosi l’unica eccezione di rilievo fu solo quella di Filippo Burzio3, che riconobbe la «serietà di Evola» e la profondità delle argomentazioni contenute nella Rivolta. Questo silenzio quasi assoluto potrebbe essere usato strumentalmente per dimostrare lo scarso valore dell’opera, se alcuni lusinghieri riscontri al livello internazionale, di cui parleremo più avanti, non contraddicessero, già di per sé, tale giudizio liquidatorio. Ci sembra, quindi, più realistico ed esaustivo fornire altre spiegazioni, meno superficiali. Infatti l’ambiente intellettuale italiano era, negli Anni Trenta, ancor meno recettivo di quello del dopoguerra nei confronti del pensiero evoliano, della sua radicale proposta antimoderna, “tradizionale”.

Né la cultura fascista, percorsa da fremiti vitalistici, futuristi, nazionalisti, idealistico-gentiliani, con alcuni, pesanti, e talora inconfessati, debiti verso l’ideologia giacobina e i miti della Rivoluzione Francese, né la cultura democratica antifascista, fortemente legata al pensiero illuminista e, più in generale, alla grande trasformazione ideologica operata nel Rinascimento, potevano apprezzare uno studioso che ridimensionava drasticamente il valore di Storia, Progresso, Scienza, Umanesimo, Modernità, Nazione. La sua cultura aristocratica, cultura della qualità e della forma, legata a grandi filoni dottrinari europei4, allora poco noti in Italia, risultava a tanti troppo impolitica, quasi incomprensibile: nel generale ottimismo dell’epoca, giustificato da uno storicismo trasversale alla dicotomia fascismo-antifascismo, la sua attenzione per il problema della decadenza, il suo interesse per il Sacro, la Trascendenza, l’Impero, la Gerarchia, da lui ritenuti realtà sovratemporali, patrimonio della Tradizione e non sottoposte, né sottoponibili, al giudizio degli individui o della Storia divinizzata, risultavano fuori dal dibattito filosofico, anacronistici.
Gli stessi critici dello storicismo si trovavano agli antipodi delle idee di universalità e impersonalità propugnate da Evola: si trattava di “relativisti” che declinavano i paradigmi della “modernità” in forme diverse, ma pur sempre qualitativamente omogenee, nei loro tratti di base, con quelle dei loro avversari. Anche i cattolici, i meno lontani, apparentemente, dalla concezione spirituale dell’autore di Rivolta, ne rifiutavano la visione “ecumenica” in campo metafisico-religioso e non avevano dimenticato i pesanti rilievi critici nei confronti del cristianesimo da lui più volte espressi appena sei-sette anni prima5. In definitiva Evola in quanto studioso della Tradizione e pensatore-analista della crisi della modernità, era necessariamente un escluso: così voleva il cosiddetto “spirito del tempo”.

A fronte di tale situazione, colpisce il diverso impatto che il suo nome e le idee da lui difese ebbero fuori dal nostro paese in ambienti culturali di rilievo, suscitando crescente interesse, fenomeno che culminò con la pubblicazione, dopo l’edizione italiana del 1934, della traduzione tedesca, l’anno dopo, di Rivolta contro il mondo moderno6. Pochi tra i suoi critici ricordano, o sanno, che Evola intrattenne a lungo rapporti con autori quali Schmitt, Eliade, Junger, Spann, Heinrich, Woodroffe, Altheim e molti altri, alcuni dei quali egli fece conoscere in Italia, contribuendo a sprovincializzarne la cultura.
Da questi e da numerosi altri, in varie occasioni, ricevette attestati di stima sul piano del valore intellettuale, valore recentemente riconfermato dall’inclusione del pensiero di Evola in una corposa opera di alto livello accademico, dedicata alle varie correnti filosofiche7. Ma le recensioni di Rivolta apparse all’estero sono forse ancor meno note8 e fanno giustizia già da sole di tanti giudizi affrettati e partigiani circa la presunta inconsistenza culturale delle posizioni evoliane. Verrebbe, piuttosto, da denunziare la miopia di molti “intellettuali” italiani, intolleranti verso la diversità radicale, percepita, forse, più come un potenziale disturbo o pericolo per le idee “ufficiali”, consolidate e rassicuranti, nel cui alveo si vuole continuare a muoversi, che come un utile termine di confronto e verifica del proprio bagaglio di valori e convinzioni.
Quanto a sensibilità in questo campo, ad esempio, il mondo francese degli Anni Trenta si dimostrò assai più aperto e dinamico del nostro, dando spazio nel dibattito a tutte le posizioni emerse al suo interno: si pensi alla attenzione che il principale testimone ed esegeta del pensiero “tradizionale” nel Novecento, René Guénon, per certi aspetti molto più radicale di Evola nella sua condanna del mondo moderno, riscosse anche tra intellettuali lontanissimi dalla sua impostazione dottrinaria, da Gide a Drieu La Rochelle arrivando a influenzare addirittura il pensiero di alcuni medici-filosofi transalpini9.

Volendo introdurre le quattro più importanti recensioni che furono scritte per Rivolta riteniamo opportuno in primo luogo inquadrarne gli autori, René Guénon (1886-1951), Gottfried Benn (1888-1956), Mircea Eliade (1907-1986) e Ananda Coomaraswamy (1877-1947), nei loro rapporti con Evola. Molte notizie sui contatti intercorsi sono rinvenibili ne Il Cammino del Cinabro10, il testo che descrive l’itinerario intellettuale dello studioso italiano, ma va osservato che Evola, in questo libro, dimostra una riservatezza non comune, evitando di enfatizzare l’importanza delle sue conoscenze internazionali, arrivando talvolta a trascurare certi fatti lusinghieri. In alcuni casi sembra aver dimenticato o addirittura ignorare i giudizi positivi espressi sulla sua attività culturale e, in particolare, su Rivolta.

Julius Evola – Scritti sul Sesso e sulla Donna nel Mondo Moderno

  Articoli vari

Julius Evola – Simboli della Tradizione Occidentale

Seconda edizione di una raccolta di quattordici articoli ricavati dagli archivi del “Centro studi Evoliani”, tratti per la maggior parte dal quotidiano cremonese “Il Regime Fascista” e gli altri da “La Difesa della Razza”, “Vita Nova”, “La Vita Italiana” “Augusta” e “Roma”., dedicati quasi interamente al mondo della Tradizione d’Occidente, il cui simbolo di Roma rifulge. I simboli – qualunque essi siano – non possono essere considerati il monopolio di nessuna stirpe, in quanto hanno un valore universale, ma quelli qui evocati da Evola hanno un valore per gli occidentali per essere stati incarnati e vissuti da un tipo d’uomo e un modello di civiltà ineguagliati nei secoli: l’Imperium.

Julius Evola – Sintesi e Dottrina della Razza

Chiarendo da una prospettiva tradizionalistica l’effettivo significato di ogni teoria sulla razza, questo saggio evoliano delinea una propria ‘dottrina della razza’. Partendo dal principio della tripartizione dell’essere umano in corpo, anima, spirito, vengono considerate per analogia le connessioni, le corrispondenze e le consonanze tra i diversi stadi-gradi della razza: la sfera corporea (‘materiale’), quella anìmica, quella infine spirituale.

Renè Guènon – 23 lettere da Renè Guènon a Guido De Giorgio

Trattasi delle 23 lettere scritte da Renè Guènon a Guido de Giorgio già pubblicate da Archè sul volume INSTANT ET ÉTERNITÉ (L’) et autres textes sur la Tradition, suivi de LA FONCTION DE L’ÉCOLE.  in FRANCESE ed ora tradotte in ITALIANO

René Guénon – Il Re del Mondo

Nel 1924 apparve a Parigi un singolare libro di Ferdinand Ossendowski, dal titolo Bestie, uomini e dèi. Vi si raccontava un avventuroso viaggio nell’Asia centrale, nel corso del quale l’autore affermava di essere venuto in contatto con un centro iniziatico misterioso, situato in un mondo sotterraneo le cui ramificazioni si estendono ovunque: il capo supremo di questo centro era detto Re del Mondo. René Guénon prese spunto da tale pubblicazione per mostrare, in questo breve e splendido libro, come, dietro alle confuse narrazioni di Ossendowski e di altri scrittori, si profilassero dottrine e miti immemoriali, di cui si ritrovavano tracce dal Tibet (con la sua nozione dell’Agarttha, la terra ‘inviolabile’) alla tradizione ebraica (con la figura di Melchisedec e della città di Salem), e così anche nei più antichi testi sanscriti, nel simbolismo del Graal, nelle leggende sull’Atlantide e in tanti altri miti e immagini. A mano a mano che si svelano questi rapporti, siamo còlti come da una vertigine: con pochi e sobri gesti Guénon riesce a mettere in contatto tali e così diverse cose che alla fine ci troviamo dinanzi a una sterminata prospettiva, che traversa tutta la storia fino a oggi, dalle origini inattingibili della Tule iperborea fino all’occultamento del centro iniziatico nella nostra ‘età nera’, il Kali-Yuga. In poche pagine, e tutto per immagini, Guénon disegna dunque la linea della trasmissione della Tradizione primordiale, sicché questo libro potrà valere per molti come introduzione al pensiero di un maestro solitario e indispensabile del nostro tempo. Il Re del Mondo è stato pubblicato per la prima volta nel 1927.

Renè Guènon – Studi sulla Massoneria e il Compagnonaggio (vol.1-2)

PRIMO VOLUME GRUPPO B  – SECONDO VOLUME  GRUPPO C

Sono raccolti 22 articoli che spaziano dal significato del G.:A.:D.:U.: al pensieroro di Joseph De Maistre, dall’iniziazione femminile alla ricerca della Parola Perduta; articoli pubblicati, fra l’altro, sulle riviste più diverse; dall’italiana “Ignis”, all’antimassonica La France Antimaçonnique, alla cattolica “Regnabit”. Si contano poi le recensioni di circa 48 libri, dall’argomento più diverso: dalla musica massonica al simbolismo del Tempio, dalle campagne antimassoniche alle Massonerie irregolari, dall’origine della Massoneria ai misteri dei Templari. Completano la raccolta le recensioni di riviste francesi,italiane,americane, inglesi, ove si pone l’accento su argomenti strettamente connessi ai rituali, ai simboli del Tempio massonico, agli Alti Gradi e a tutta una se rie di argomenti che non mancano di meravigliare il lettore. “

Rene Guenon – Simboli Della Scienza Sacra

La coppa del Graal e la Lingua degli Uccelli, il loto e la rosa, lo Zodiaco e il Polo, la montagna e la caverna, la cupola e la ruota, l’Albero del Mondo e l’Albero della Vita, il ponte e i nodi, il cuore e il granello di senape, la Tetraktys e la bevanda dell’immortalità, l’uovo del Mondo e le porte solstiziali, la Terra Santa e la Città divina – sono questi, e molti altri, i «simboli della Scienza sacra» di cui Guénon ci svela e rivela i molteplici significati in questo libro insostituibile.

Renè Guènon – Regno della Quantità e Segni dei Tempi

«Fra i critici del mondo moderno, ormai innumerevoli, René Guénon merita di essere segnalato come uno dei più radicali, dei più limpidi e coerenti … Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi è certamente la sua opera più completa e più rigorosa, e quindi anche la più utile … Guénon – e in particolare questo suo libro, a preferenza di altri – merita di essere letto per togliersi dalla comoda illusione che il mondo sia necessariamente come noi siamo abituati a pensare che debba essere». Sergio Quinzio

Renè Guènon – Recensioni

A quanti già conoscono l’opera di questo Autore è inutile raccomandare la lettura di Recensioni, perché essi, consci della funzione in qualche modo unica e incomparabile assolta da questi, vi procederanno certamente senza invito. (…) Uno degli argomenti di maggiore interesse toccati nelle recensioni è quello relativo alla forma tradizionale espressa nell’età “classica” della civiltà ellenico-romana. (…) Un altro argomento ricorrente nella presente raccolta riguarda le “scienze tradizionali” e specialmente la concezione tradizionale dell’arte, oggetto di diversi studi curati da A.K. Coomaraswamy, altro eminente rievocatore dell’intellettualità sapienziale nonché collaboratore di R. Guénon. (…) In questa raccolta trovano posto anche recensioni di testi a pretese più o meno intellettuali scritti da famosi neo-spiritualisti. (Giovanni Servusdei, “Vie della Tradizione”, 44, ott.-dic. 1981)

Renè Guenon – Principi del Calcolo Infinitesimale

È singolare come nei suoi ultimi anni Guénon abbia voluto dedicare un libro a una questione matematica quale il calcolo infinitesimale, introdotto da Leibniz e poi diventato un pilastro della scienza moderna. Ma evidentemente riteneva che qui fossero in gioco problemi di altissima rilevanza. Tralasciando gli aspetti pratici connessi al calcolo matematico – per lui «del tutto privi di interesse» –, Guénon si concentra sui princìpi che dovrebbero costituire il fondamento di ogni sapere particolare, e chiarisce nozioni che in realtà, in quanto passibili di essere trasposte analogicamente e di acquisire anche una valenza metafisica, attraversano l’intera sua opera: dal significato della serie dei numeri, dell’unità e dello zero alle fondamentali differenze fra l’«infinito» propriamente detto e l’«indefinito», fra il continuo e il discontinuo, fra la quantità e la qualità. Guénon mostra come le difficoltà concettuali e i dubbi affrontati da Leibniz e dai matematici che dopo di lui si cimentarono con l’idea dell’infinito discendano dall’abbandono di quel rigore intellettuale proprio del pensiero metafisico che, in rapporto alla mera indagine empirica e razionale cui sono confinate le scienze moderne, rappresenta un «passaggio al limite» – rispetto al quale, secondo Paolo Zellini, anche le «formule del calcolo più avanzato non possono sempre dichiararsi estranee».

Renè Guènon – Oriente e Occidente

Rudyard Kipling scrisse un giorno queste parole: «East is East and West is West, and never the twain shall meet, L’Oriente è l’Oriente e l’Occidente è l’Occidente, e i due mai s’incontreranno». Vero è che, nel seguito del testo, egli modifica la sua affermazione, ammettendo che «la differenza scompare quando due uomini forti si trovino a faccia a faccia, dopo essere venuti dalle estremità della terra»; in realtà anche questa precisazione non è del tutto soddisfacente, perché è ben poco probabile che così dicendo egli abbia pensato ad una «forza» di ordine spirituale. Comunque sia, l’abitudine è di citare isolatamente il primo verso, come se tutto ciò che rimane nel pensiero del lettore fosse l’idea della differenza insormontabile che esso esprime; indubbiamente quest’idea rappresenta l’opinione della maggior parte degli Europei, e si sente in essa affiorare tutta la stizza del conquistatore costretto ad ammettere che coloro che crede di aver vinto e sottomesso portano in sé qualcosa su cui egli non può aver presa. Ma, qualunque sia il sentimento che ha dato origine a una tale opinione, quel che ci interessa innanzi tutto è sapere se essa sia fondata, o in quale misura lo è. Certamente, se si considera lo stato attuale delle cose, si trovano molteplici indizi che sembrano giustificarla; e tuttavia se noi la condividessimo completamente, se pensassimo che nessun avvicinamento è possibile né mai lo sarà, non avremmo intrapreso a scrivere questo libro.

Renè Guènon – L’Uomo e il suo Divenire secondo il Vedanta

Fra tutti i libri di René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta è forse quello che più di ogni altro mostra l’intelaiatura del suo pensiero. Sottintendendo, naturalmente, che tale pensiero non pretende di inventare nulla, ma soltanto di esporre con la massima precisione un pensiero che da sempre è: la Tradizione primordiale, la cui dottrina, secondo Guénon, non traspare mai con altrettanta precisione come nel pensiero vedantico. Ma che cos’è il Vêdânta? Una delle sei «visioni» (darshana) che, secondo le più antiche testimonianze indiane, ci permettono di capire ciò che è. Tutte vere, ma ciascuna in rapporto a un certo livello della realtà. Il più alto, che consente di inglobare in sé ogni altro, è appunto quello del Vêdânta, «il ramo più puramente metafisico di tali dottrine». Così si può dire che il Vêdânta è una sorta di dottrina suprema. Nessuno ha saputo esporla in Occidente con l’evidenza che incontriamo in questo libro di Guénon. Nessuno ha saputo sgombrare il campo, con tale autorevolezza, dai numerosi, tipici equivoci occidentali intorno a una dottrina considerata da tanti una filosofia o una religione o «qualche cosa che partecipa più o meno dell’una o dell’altra», mentre non è in verità niente di tutto questo.

Renè Guènon – L’Archeometra

Il volume si ispira ad un`opera omonima di Alexandre Saint-Yves d`Alveydre (1842-1909), una vera e propria summa di conoscenze cosmologiche tradizionali.

Chi conosce l`opera di Guénon potrà qui trovare ad ogni pagina quei concetti che si andranno con gli anni ampliando ed approfondendo nelle opere maggiori: la dottrina dei cicli cosmici, la nozione di Etere Primordiale, il simbolismo dei solstizi, il significato delle caste, l`interpretazione delle lingue sacre, etc.

Se dunque dal punto di vista formale L`Archeometra si presenta come un commento all`opera di Saint-Yves e ai suoi grafici, in realtà la portata di questo studio di Guénon va molto al di là degli spunti contenuti nell`originale, anzi dà a quegli spunti una ragion d`essere e dei fondamenti ben più significativi ed universali.

Rene Guenon – La Metafisica Orientale

Anche questo breve libretto guenoniano va ad incastonarsi nel variegato e prestigioso mosaico composto dal catalogo della casa editrice milanese, occupando un tassello piccolo ma importante. Si tratta infatti dell’unica conferenza pubblica mai tenuta dall’autore (precisamente alla Sorbona di Parigi il 12 dicembre del 1925) in cui vengono sintetizzati ed esposti in modo semplice e conciso, i punti principali della dottrina che Guénon, negli anni successivi, andrà delineando nel corso delle sue opere maggiori.

«Nonostante il titolo -commenta Piero di Vona in René Guénon e la metafisica- Guénon afferma all’inizio che la metafisica pura è universale. Solamente le forme esterne, di cui essa si riveste per necessità di esposizione, e per manifestare ciò che è exprimable, possono essere orientali o occidentali. Ma la metafisica per essenza è al di fuori e al di là di tutte le contingenze».

Ma che cos’è la metafisica? Spiega Guénon, riportandosi al significato etimologico della parola:

«”metafisica” significa letteralmente “di là della fisica”, intendendo “fisica” nell’accezione che tale termine aveva sempre avuto per gli antichi, accezione che è quella di “scienza della natura” in tutta la sua generalità. La fisica è lo studio di tutto quel che appartiene all’ambito della natura; ciò che riguarda la metafisica è quel che è al di là della natura».

Rene Guènon – La Grande Triade

«Il Cielo copre, la Terra sostiene» dice un’antica sentenza cinese. Il cielo è la «perfezione attiva», la terra è la «perfezione passiva». «Cielo, Terra, Uomo» (Tien-ti-jen), ecco la Grande Triade che Guénon volle illuminare in questo suo ultimo libro, pubblicato nel 1946. Invece di affermare in termini generali la corrispondenza esoterica delle tradizioni, volle qui far vedere in concreto che cosa è tale corrispondenza e in quali modi essa si articola, mostrandone ogni volta un aspetto, come la faccia di un cristallo, nei brevi, magistrali capitoli di quest’opera, che appunto perciò può essere vista come la summa e il simbolo essa stessa del pensiero di Guénon. Lo yin e lo yang, la doppia spirale, il solve e coagula dell’alchimia, i numeri celesti e i numeri terrestri, i rapporti fra l’essere e il suo ambiente, l’Essenza e la Sostanza, l’autorità sacerdotale e l’autorità regale, l’Invariabile Mezzo e la Via del Mezzo, il simbolismo massonico della squadra e del compasso e quello cabbalistico della Shekinah, la ruota cosmica: ciascuno di questi temi è di immensa ricchezza. Tanto più stupefacente apparirà l’impresa che Guénon ha qui compiuto: pur facendo presagire ogni volta tutta la complessità e peculiarità di queste immagini, le ha fatte risuonare nella loro essenza, le ha rese trasparenti con poche, sobrie e decisive parole, così inanellandole in un’aurea catena, dove il vincolo è invisibile e indissolubile.

Renè Guènon – Introduzione allo Studio delle Dottrine Indu

Con questo libro, che fu la prima delle sue opere maggiori e apparve nel 1921, Guénon volle presentare la sua idea della tradizione partendo da zero e da quel luogo del pensiero, l’India, dove la tradizione si è dispiegata nei testi con la massima evidenza. Sarebbe difficile pensare un libro su questi temi che sia altrettanto trasparente, che accompagni con altrettanta diligenza il lettore in ogni passo – e infine che sfoci in una visione altrettanto grandiosa. Dai Veda al buddhismo, attraverso le grandi scuole, come lo Yoga e il Vedanta, che sono poi i vari «punti di vista» dai quali la verità unica della metafisica viene contemplata, Guénon ci fa attraversare un immenso continente del pensiero e al tempo stesso getta le basi di tutta la sua opera. Di questo libro così ha scritto l’eminente indologo Alain Daniélou: «La prima grande opera di Guénon, la sua Introduzione generale allo studio delle dottrine indù ha, per il mondo occidentale moderno, un’importanza storica perché in essa viene presentato, per la prima volta, un quadro autentico di quella concezione di una rivelazione primordiale trasmessa attraverso le età da iniziati che appare nell’Induismo ma le cui tracce devono inevitabilmente ritrovarsi, in forma più o meno nascosta, in tutte le civiltà, poiché esse sono la ragion d’essere dell’uomo».